Opinione intermedia. Da un’analisi più approfondita del libro di Daniele pare possibile aderire a una teoria intermedia, che distingua tra il materiale adoperato e la stesura definitiva del redattore finale.
Il nucleo originale può risalire al veggente della tradizione, cioè a Daniele. Questo elemento sostanziale, trasmesso inizialmente in parte oralmente e in parte con lo scritto, è richiesto dal contenuto persiano e prepersiano del ciclo storico del libro di Dn (capp. 1-6).
In questi racconti non vi è nulla di antisemitico, come si avverò al tempo di Antioco IV Epifane; nulla dell’esaltazione nazionale esasperata quale si trova nei libri di Esdra e Neemia. Daniele e i suoi compagni vivono alla corte del re, sono in contatto con gli altri, lavorano per i dominatori stranieri, non si estraniano in un ghetto a parte, imparano la lingua e la scienza dei caldei, ricevono onorificenze dai re gentili. Unica differenza è la loro fede in Dio, che non impongono agli altri ma che vivono in fedeltà, giorno dopo giorno, fiduciosi nell’aiuto divino. Se queste sezioni fossero state composte al tempo maccabaico, avrebbero tradito uno spirito diverso, nazionalista e antiellenistico.
L’autore di questi brani non è solo un archeologo che studia il passato e cerca di riviverlo, ma è una persona che viveva in un ambiente babilonese, ben al corrente degli usi e dei costumi di quel popolo. Ciò si deduce da un’attenta analisi del libro, di cui tiriamo di seguito le somme.
- L’autore conosce troppo bene gli usi e le consuetudini dei babilonesi:
- L’educazione aulica dei prigionieri nobili: “Il re disse ad Aspenaz, capo dei suoi eunuchi, di condurgli dei figli d’Israele, di stirpe reale o di famiglie nobili . . . capaci di stare nel palazzo reale per apprendere la scrittura e la lingua dei Caldei”. – Dn 1:3,4.
- I nomi che devono mutare: “Il capo degli eunuchi diede loro altri nomi”. – Dn 1:7.
- Le varie categorie sacerdotali: “I magi e astrologi che erano in tutto il suo regno” (Dn 1:20); “I magi, gli incantatori, gli indovini” (Dn 2:2); “Il segreto che il re domanda, né saggi, né incantatori, né magi, né astrologi possono svelarlo al re” (Dn 2:27). – Cfr. Dn 5:7,11.
- I vari titoli dei magistrati: “I satrapi, i prefetti e i governatori, i consiglieri, i tesorieri, i giureconsulti, i magistrati e tutte le autorità delle province”. – Dn 3:3.
- La grande estimazione per i maghi e per i sogni: “Racconta il sogno ai tuoi servi e noi ne daremo l’interpretazione”. – Dn 2:4.
- Daniele è ben informato quando parla del facile sincretismo religioso di Nabucodonosor, delle pene crudeli inflitte dai tribunali babilonesi, degli onori facilmente tributati ai pupilli.
- L’autore si dimostra buon conoscitore della geografia mesopotamica.
- Si ha l’impressione di stare proprio di fronte a un testimone oculare:
- L’influsso del vocabolario accadico lo conferma, specialmente nei primi sei capitoli.
- La cultura accadica si rispecchia pure nei simboli delle visioni, specialmente nel cap. 7. In queste visioni Daniele non era poi molto lontano dai concetti dei vecchi nevyìm (profeti) d’Israele (Os 13:7,8; Is 15:9; Ger 5:6;49:19;50:17; Zc 10:3; Ez 1:8-11;37:40-48). Come costoro, sa che le nazioni, anche quando Dio le utilizza per castigare il suo popolo, sono votate alla rovina (Is 10:5-19;13:14;14:24-27; Ger 50:51) mentre Israele dovrà trionfare (Is 10:20-27;41:8-20; Ez 36-39), benché dopo l’ultima prova (Ez 18:15-18; Gle 4:2;9:14). Ha poi in comune con tutti i grandi profeti la fede nel giudizio delle nazioni (Am 1,2; Is 14:24-27; Sof 1:2; Ger 2:14;25:15; Ez 25-32) e nella resurrezione dei morti (Is 26:19;37:11-14). Anche il concetto della pietra che fa crollare la potenza pagana potrebbe richiamare quella di Is (17:10;26:4;32:2) e di Dt (32:4-15), significando Dio stesso.
Molto materiale di Daniele deve perciò risalire al periodo dell’esilio. Questi racconti dovevano circolare separati, per questo hanno introduzioni proprie, alcune incongruenze e diversità linguistiche. Così, il vocabolo “caldei” in Dn 1:4 indica il popolo babilonese, riferendosi alla “lingua dei Caldei”, mentre in Dn 2:2,10 indica il gruppo dei maghi di corte: “Il re fece chiamare i magi, gli incantatori, gli indovini e i Caldei perché gli spiegassero i suoi sogni”, “I Caldei risposero al re, e dissero”. In Dn 1:18 si dice che “il re [Nabucodonosor] parlò con loro” ovvero conversò con i giovani ebrei fra cui c’era Daniele (ibidem), mentre in 2:24-26 appare che Daniele fosse per lui un ebreo sconosciuto. In 4:8 Nabucodonosor dice a Daniele che gli si presenta con assoluta libertà, di avere fiducia in lui: “Nel quale è lo spirito degli dèi santi, e io gli raccontai il sogno”, ma in 5:11 il re Baldassar non sa chi sia. Non vi è contraddizione in questi passi ma solo una libera presentazione del materiale, in modo indipendente.
A Daniele può risalire anche un corpus di visioni, naturalmente senza la precisione da esse assunta in seguito con la loro rilettura profetica e dopo la loro attualizzazione. La divisione degli indovini in più classi e la credenza nell’oniromanzia corrisponde all’uso babilonese. A Daniele può risalire anche la divisione della storia umana in quattro periodi giacché si radica nella simile dottrina zoroastriana dei quattro periodi del mondo, simboleggiati da un continuo decrescere delle preziosità dei metalli (cfr. Bahaman Yasht 1,3). Daniele, per ispirazione divina, ne avrebbe parlato sia pure in modo generico, facendovi poi succedere per illuminazione divina la pienezza del Regno messianico. Le visioni stesse degli animali sono di un’arcaicità impressionante e ricalcano i motivi del mondo accadico persiano. Così, ad esempio, nel cap. 7, gli animali compositi che escono dal mare sconvolto dai quattro venti, il leone simbolo dei babilonesi, il rituale della proclamazione del re.
Come allargamento posteriore della profezia iniziale possono essere le attualizzazioni che leggiamo, ad esempio, in 8:20,21: “Il montone con due corna, che tu hai visto, rappresenta i re di Media e di Persia. Il capro irsuto è il re di Grecia”.
Così si può anche capire come mai Yeshùa dica che l’abominio preannunciante la distruzione di Gerusalemme sia stato predetto dal “profeta Daniele” (Mt 24:15). Di solito si dice che Yeshùa si adattò alla mentalità del tempo. Tuttavia Yeshùa non afferma che Daniele abbia scritto il libro, ma solo che ha profetizzato la venuta del Regno preceduto dalla profanazione del Tempio di Gerusalemme: τὸ ῥηθὲν διὰ Δανιὴλ τοῦ προφήτου (tò rethèn dià Danièl tu profètu), “la cosa detta da Daniele il profeta”. Ora, non è escluso che Daniele abbia proprio profetizzato ciò, anche se la formulazione della sua profezia fu riscritta e meglio chiarita nel corso dei secoli, a mano a mano che se ne pensava realizzata una parte.
Le tradizioni poste in iscritto. Al tempo di Mattatia (il sacerdote ebreo padre dei fratelli maccabei – cfr. 1Maccabei) doveva già esistere un libro antologico di Daniele (prima quindi della ribellione di Giuda Maccabeo), perché egli rimase edificato dalla fiduciosa fedeltà di Anania, Misael e Azaria (i tre compagni ebrei di Daniele) e dalla forza di Daniele gettato nella fossa dei leoni dalle cui fauci fu liberato.
Giuseppe Flavio narra che il sommo sacerdote di Gerusalemme mostrò a Alessandro Magno il libro di Daniele dove stava scritto che “uno dei greci avrebbe distrutto l’impero persiano” (Antichità Giudaiche 11,8,5), cosa che si era verificata nel conquistatore macedone. Segno quindi che la collezione di Daniele doveva già esistere, anche se non aveva ancora assunto la forma completa quale l’abbiamo oggi. Molti, tuttavia, non danno credito al racconto di Giuseppe Flavio, sebbene non ci sia un serio motivo per dubitarne.
L’esistenza di un testo danielico già scritto è documentata pure da un passo talmudico che attribuisce la stesura del libro di Daniele agli uomini della grande sinagoga (Baba Bathra 15a). Questa testimonianza fu pure ripresa da Isidoro. – De eccl. off. 1,12 PL 83,747; Etymol 6,2 PL 82,232.
L’attuale forma finale del libro si deve al periodo dei seleucidi, come risulta dal cap. 11 che anziché essere profetico è piuttosto apocalittico, vale a dire che descrive eventi già avveratisi presentandoli in forma profetica. Ciò appare evidente a chiunque confronti questo capitolo con gli altri. Esso è ricco di particolari minuziosi da presentarsi come un genere letterario ben diverso da quello profetico che è solo generico.
È appunto quest’ultimo ispirato redattore anonimo che ha raccolto tutti i brani danielici precedenti e che ha dato loro un’organizzazione letteraria assai unitaria in vista di un loro adattamento alla situazione spirituale e sociale del tempo di Antioco. Le antiche profezie sono state ampliate con l’aggiunta del loro avveramento storico secondo il genere letterario del periodo qumranico. Questa rilettura storica è stata ancor più sviluppata dalle versioni greche di Teodozione e della LXX, che applicano la profezia al tempo dei romani. Così le “navi di Chittim” dell’originale di Dn 11:30 diventano i “romani” (Ῥωμαῖοι, romàioi) nella LXX.
Originale bilingue. Sin dall’inizio il libro fu composto in due lingue: ebraico e aramaico. Tale bilinguismo è già presente nell’identica misura nei frammenti scoperti a Qumràn, anche se si è trovato un frammento aramaico del primo capitolo, che nel Testo Masoretico è invece conservato in ebraico (Qumran Cave I, Oxford, 1956, pagg. 150-152). La diversità è dovuta probabilmente alla diversa origine delle singole pericopi, che all’inizio erano indipendenti. Il redattore, nel raccogliere il suo materiale, ha cercato di mantenere in aramaico le parti più internazionali riguardanti la storia delle nazioni, mentre ha voluto conservare e redigere in ebraico quelle sezioni che più direttamente interessavano gli ebrei. Alla prima parte aramaica è stato premesso un capitolo in ebraico per mostrare che l’intero libro era stato composto per i giudei.
L’uso di diverse lingue rientra in un fenomeno che dovette essere diffuso sin dall’epoca persiana, poiché gli ebrei viventi in oriente oltre alla loro lingua paterna dovevano per necessità di convivenza conoscere e parlare anche l’aramaico, che, divenuta la lingua internazionale, andava gradualmente prendendo il sopravvento sulle altre lingue locali, tra cui l’ebraico. Non per nulla il libro di Esdra (4:8-6:18) include dei documenti persiani redatti in aramaico. La lingua sacra per eccellenza rimase l’ebraico e fu usata nella letteratura sinagogale anche quando non veniva più compresa, per cui si dovette introdurre la figura dell’interprete per spiegare ciò che riusciva misterioso al popolo.
Daniele della Bibbia greca. Il libro di Dn godette grande popolarità e fu strascritto più volte. I giudei di lingua greca ne hanno conservato due versioni distinte:
1) La versione greca della LXX, che differisce notevolmente dal testo ebraico attuale (Testo Masoretico), rispecchia una tradizione testuale diversa. Già nel 5° secolo E. V. lo affermava Girolamo nella sua prefazione a Daniele:
“Le chiese non leggono il profeta Daniele secondo la LXX ma usano la versione greca di Teodozione; non so per quale motivo. Ad ogni modo posso affermare che la LXX si allontana troppo dall’ebraica verità. Di conseguenza, aderendo al giudizio dei maestri della chiesa, si è preferito trascurare in questa mia versione [la Vulgata latina] la traduzione greca della Settanta per seguire quella di Teodozione che comunemente si legge e che meglio si accorda [all’ebraico] con le altre traduzioni greche”. – Girolamo, Prefazione a Daniele, PL 25,413; cfr Daniele IV,6 PL 24,514.
Il testo di questa versione fino a non molto tempo fa ci era noto solo indirettamente attraverso una sua traduzione siro-esaplare (l’Esapla o edizione hexaplaris è il lavoro monumentale compiuto da Origène che dispose tutte le Scritture Ebraiche su sei colonne: la prima dava il testo ebraico in caratteri ebraici, la seconda il testo ebraico trascritto in caratteri greci, la terza e le seguenti, per ordine, le versioni di Aquila, di Simmaco, dei Settanta, di Teodozione), compiuta verso il 615-617 da Paolo di Tella, finché nel 18° secolo se ne ritrovò il testo originale nel manoscritto di Chigi (Codex Chisianus, 11° secolo) e ancor più recentemente in 13 fogli del Codex 967 (metà del 13° secolo) appartenente alla nota collezione Chester Beatty e pubblicata nel 1931. Sua caratteristica è ora una maggiore estensione del testo e ora un suo condensamento. Per maggiore rispetto cronologico sposta i capp. 4 e 6 dopo i capp. 7 e 8, rompendo tuttavia la ripartizione del libro in due parti (storia e profezia) e creando una maggiore confusione delle lingue, giacché i due capitoli spostati (scritti originariamente in aramaico) sono introdotti in una sezione che è ebraica.
2) La versione greca di Teodozione (traduttore vissuto verso il 170 a. E. V.) segue il Testo Masoretico attuale, ma in una forma ancora migliore. Già Porfirio, filosofo neoplatonico del 3° secolo, avrebbe utilizzato per Daniele la versione di Teodozione. Questo testo finì per soppiantare il testo originale della versione greca della LXX.
Aggiunte apocrife. Le versioni greche (LXX e Teodozione) aggiungono alla fine del libro di Dn (e in alcuni codici al suo inizio, almeno per la storia di Susanna) due interi capitoli e introducono alcuni versetti nel cap. 4. Queste aggiunte sono:
- La preghiera di Azaria in 3:24-46.
- La lode dei tre giovani nella fornace arroventata in 3:46-90.
- La casta Susanna (cap. 13) che è una parte a sé stante nella versione siriaca, mentre in alcuni casi è posta al’inizio di Dn (Teodozione, Vetus Latina, Copta) o alla fine (LXX, Vulgata).
- Bel e il dragone (cap. 14), che è un libro a parte nella LXX.
Può darsi che i versetti 3:46-50 (discesa dell’angelo salvatore nella fornace) siano genuini, perché supposti dal v. 25: “’Eppure’, disse ancora il re, ‘io vedo quattro uomini, sciolti, che camminano in mezzo al fuoco’”. “Non erano tre, gli uomini che abbiamo legati e gettati in mezzo al fuoco ardente?” (v. 24). Il quarto, di cui nulla dice il Testo Masoretico attuale, è proprio l’angelo sceso nella fornace di cui parla il brano storico aggiunto nella LXX e posto tra i due inni di Azaria e i tre giovani assieme (vv. 46-50). Questi versetti sembrano quindi supposti dal testo attuale e si devono quindi ritenere perduti nella trasmissione testuale di Dn.
Queste aggiunte – che secondo il Grelet proverrebbero da un originale semitico (aramaico o ebraico che sia) – sono chiamate deuterocanoniche e vengono ritenute ispirate dai cattolici, mentre sono respinte come apocrife dagli ebrei e dai protestanti. Gli scrittori ebrei, come Aquila e Simmaco, che tradussero la Bibbia in greco non le hanno. Anche Giuseppe Flavio le ignora. Girolamo, pur avendole tradotte in latino, non le aveva in simpatia:
“Gli ebrei non hanno la storia di Susanna né l’inno dei tre fanciulli e nemmeno le favole di Bel e del dragone: per il fatto che sono note in tutto il mondo, noi le abbiamo presentate, posponendo e comprimendo la verità”. – Girolamo, Prefazione in Daniele, PL 25,493 s.
Nonostante i dubbi di alcuni teologi cattolici, che volevano sottolinearne il valore inferiore rispetto a quello degli scritti sacri, il Concilio di Trento ne definì la sacralità e l’ispirazione quando stabilì in modo autoritario che la Bibbia è ispirata “con tutte le sue parti così come si trovano nella Volgata latina” (Denzinger Schönmetzer 1504). Non vi è però alcun motivo di seguire una decisione autoritaria a scapito della verità storica.