Per me vivere è il Cristo

 

Flp 1

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“Desidero che voi sappiate, fratelli, che quanto mi è accaduto ha piuttosto contribuito al progresso del vangelo;

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al punto che a tutti quelli del pretorio e a tutti gli altri è divenuto noto che sono in catene per Cristo;

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e la maggioranza dei fratelli nel Signore, incoraggiati dalle mie catene, hanno avuto più ardire nell’annunciare senza paura la parola di Dio”.

   “Desidero che voi sappiate”: è un inizio normale dello stile epistolare. “Quanto mi è accaduto” è nel testo greco letteralmente “le cose riguardo a me” (“le mie cose”, TNM); si tratta delle circostanze presenti in cui Paolo si trova. Mentre la prigionia doveva sembrare una difficoltà alla propagazione del vangelo, di fatto essa l’ha favorito: i pretoriani (v. 13) lo hanno conosciuto dalla sua bocca e a loro volta ne sono stati latori ad altri: soldati e cittadini. – V. 13.

   Il termine qui usato per “progresso” (v. 12) – προκοπή (prokopè) – era comune presso gli stoici per indicare il progresso nella sapienza; qui naturalmente si riferisce al progresso del vangelo che è la “sapienza di Dio”. Indica lo sforzo di uno scalpello che tagliando penetra in qualcosa.

   Al v. 13, “pretorio” potrebbe essere riferito sia alle guardie pretoriane (come farebbe supporre “e a tutti gli altri”); ma potrebbe anche riferirsi alle autorità giudiziarie, al prefetto del pretorio e ai suoi aiutanti, in quanto si sapeva che Paolo non era in prigione per una disubbidienza alla legge ma a motivo del Cristo (“in catene per Cristo”, v. 13). Il greco ha ἐν Χριστῷ  (en Christò), “in Cristo”, ossia per causa di Cristo, in relazione a Cristo: “I legami della mia prigionia son divenuti di pubblica conoscenza in relazione con Cristo”. – TNM.

   Al v. 14 si dice che nel vedere l’andamento propizio del processo di Paolo, anche gli altri fratelli presero maggiore ardire nel parlare del vangelo, senza paura delle autorità.

15 “Vero è che alcuni predicano Cristo anche per invidia e per rivalità; ma ce ne sono anche altri che lo predicano di buon animo.
16 Questi lo fanno per amore, sapendo che sono incaricato della difesa del vangelo;
17 ma quelli annunziano Cristo con spirito di rivalità, non sinceramente, pensando di provocarmi qualche afflizione nelle mie catene.
18 Che importa? Comunque sia, con ipocrisia o con sincerità, Cristo è annunziato; di questo mi rallegro, e mi rallegrerò ancora;
19 so infatti che ciò tornerà a mia salvezza, mediante le vostre suppliche e l’assistenza dello Spirito di Gesù Cristo,
20 secondo la mia viva attesa e la mia speranza di non aver da vergognarmi di nulla; ma che con ogni franchezza, ora come sempre, Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia con la vita, sia con la morte.
21 Infatti per me il vivere è Cristo e il morire guadagno”.

   Vv. 15-18. Yeshùa è predicato in ogni modo, sia per dispetto sia per buona volontà. Mentre alcuni lo predicano “per amore” (v. 16) ossia per coadiuvare Paolo nella sua missione evangelizzatrice, altri invece lo fanno “per invidia e per rivalità” (v. 15). Chi sono costoro? Alcuni pensano ai giudei divenuti discepoli. Altri pensano a chi essendo stato in prigione prima di Paolo, punto nella sua indolenza dall’indomita energia paolina, cerca di fargli vedere che lui non è poi l’unico grande apostolo al mondo e che altri pure valgono qualcosa. È possibile che entrambi le linee vadano prese in considerazione. La sua gente – anche quella delle congregazioni dei discepoli di Yeshùa – è pur sempre piena, a volte, di meschinità. I Testimoni di Geova propendono per la seconda delle due ipotesi possibili: “Paolo dovette opporsi a certuni che avevano l’abitudine di contendere. Alcuni dichiaravano la buona notizia per contenzione, forse per mettersi in vista e screditare l’autorità e l’influenza di Paolo. Ma Paolo non permise che ciò lo privasse della gioia di vedere che Cristo veniva proclamato” (Perspicacia nello studio delle Scritture Vol. 1, pag. 555, § 3 della voce “Contesa”); “Il loro intento era quello di screditare Paolo e la sua autorità apostolica, di cui erano invidiosi. Cercavano di scoraggiare e abbattere l’apostolo imprigionato e di innalzarsi a sue spese per promuovere i loro fini egoistici” (Ibidem Vol. 2, pag. 32, § 3 della voce “Invidia”). È possibile, certo, ma anche la prima ipotesi rimane valida.

   In ogni caso, pur essendo Paolo già afflitto per la sua prigionia, di fatto non si sente punto da queste piccinerie, ma anzi non ha che un solo sentimento: la gioia! Per lui Yeshùa è quel che conta. Cristo è predicato, e questo gli basta.

   Vv. 18-20. La gioia di Paolo traspare. È la gioia per la predicazione del vangelo. “Ciò tornerà a mia salvezza” (v. 19): vale a dire che tutte le circostanze presenti gioveranno alla sua salvezza, non alla salvezza personale ed eterna, ma alla sua liberazione dal carcere. Ciò appare dal fatto che queste parole sono una citazione di Gb 13:16, in cui si tratta del trionfo della giustizia a favore del povero sofferente: “Anche questo servirà alla mia salvezza” (cfr. 2Cor 1:10). Questo non appare sempre chiaro dalle traduzioni. Eppure le parole di Paolo sono proprio le stesse di Giobbe. Non dimentichiamoci che la primitiva congregazione dei discepoli usava come testo biblico la versione greca dei LXX. In questa versione si trovano le stesse identiche parole usate da Paolo:

Gb 13:16

τοῦτό μοι ἀποβήσεται εἰς σωτηρίαν

Flp 1:19

τοῦτό μοι ἀποβήσεται εἰς σωτηρίαν

Traslitterazione

tùto moi apobèsetai èis soterìan

Traduzione

Ciò a me gioverà verso salvezza

   È per tale motivo (per la sua liberazione) che Paolo chiede ai filippesi l’aiuto della preghiera (“mediante le vostre suppliche”, v. 19), che non solo per Paolo ma per tutti gli scrittori delle Scritture Greche ha sempre un’enorme importanza. Non solo mediante la preghiera, ma anche con “l’assistenza dello Spirito di Gesù Cristo” (v. 19). Si tratta dello spirito santo. È lo spirito che Yeshùa possiede e che, in un certo senso, si è identificato con il Cristo risorto. La trinità pagana qui non c’entra proprio alcunché. “Così anche sta scritto: ‘Il primo uomo, Adamo, divenne anima vivente’; l’ultimo Adamo è spirito vivificante” (1Cor 15:45; cfr. 6:17). Essendo Yeshùa “spirito”, vale a dire potenza, egli lo può distribuire a coloro che gli sono innestati con il battesimo e sono membri del suo corpo.

   Il v. 20 merita un po’ di attenzione. NR traduce: “La mia speranza di non aver da vergognarmi di nulla”. TNM, similmente: “Speranza che non mi vergognerò di nulla”. Ma CEI traduce diversamente: “Speranza che in nulla rimarrò confuso”. Qual è il senso preciso? Il greco ha ἐν οὐδενὶ αἰσχυνθήσομαι  (en udenì aischüthèsomai), “in nulla aischüthèsomai”. Aischüthèsomai è il futuro della forma passiva del verbo αἰσχύνομαι (aischΰnomai), numero Strong 153, che significa: “1) sfigurare 2) disonorare 3) dare vergogna, rendere vergognoso” (Vocabolario del Nuovo Testamento). La traduzione non è quindi: “Non mi vergognerò di nulla”, ma: “In nulla sarò sfigurato / disonorato / reso vergognoso”. Qui Paolo non sta esprimendo la speranza che in futuro non si vergognerà, sta invece esprimendo l’aspettativa e la speranza che non sarà lui ad essere svergognato. In pratica, pur essendo sempre possibile rinnegare il Cristo (cosa per cui sarebbe disonorato o svergognato), Paolo spera ardentemente di avere un grande “coraggio” (questo il significato del greco parresìa tradotto “franchezza” da NR e “libertà di parola” da TNM), vale a dire l’ardire nel parlare e nel predicare il vangelo. “In tutto coraggio”, dice letteralmente il greco: ἀλλ’ ἐν πάσῃ παρρησίᾳ  (all’en pàse parresìa). Traducendo correttamente, il testo scorre in modo logico.

Senso logico del testo greco

“Grazie alle vostre preghiere e all’aiuto di Yeshùa, la mia aspettativa e la mia speranza è di non venir meno in nulla, di non essere svergognato, anzi sono sicuro che come sempre avrò coraggio e il Cristo sarà glorificato nella mia persona, sia che io viva sia che io muoia”.

Poco senso

di alcune traduzioni

“Grazie alle vostre preghiere e all’aiuto di Yeshùa, la mia aspettativa e la mia speranza è non mi vergognerò di nulla, anzi sono sicuro che come sempre avrò libertà di parola e il Cristo sarà glorificato nella mia persone, sia che io viva sia che io muoia”.

   Paolo non chiede le preghiere dei fratelli e l’aiuto dello spirito per non vergognarsi in futuro. Che senso avrebbe farlo? Né spera di avere libertà di parola sia che viva sia che muoia. Sarebbe un non senso. Infatti, la parola greca parresìa, tradotta “libertà di parola” da TNM è la stessa identica che di At 4:29 che TNM traduce qui con “intrepidezza”.

   Paolo chiede le preghiere e l’aiuto dello spirito per non venir meno, anche se è sicuro che – come sempre è stato prima – avrà il coraggio di glorificare Yeshùa, e questo sia che viva o sia che muoia.

   La parola parresìa (“coraggio”) è la parola tipica che designa il comportamento dei discepoli di Yeshùa del primo secolo e che merita di essere rivissuta anche dai discepoli moderni. “Concedi ai tuoi servi di annunziare la tua Parola in tutta franchezza” (At 4:29); TNM: “Con ogni intrepidezza”; greco: παρρησίας πάσης  (parresìas pàses), “con tutto coraggio”.

   Il v. 20 dice anche: “Cristo sarà glorificato nel mio corpo”. Qui “corpo” indica la persona stessa: “Sarà glorificato nella mia persona”. La parola “corpo” (greco σῶμα, sòma) è una parola che presso Paolo designa l’organo dell’anima (greco ψυχή, psüchè) e dello spirito (greco πνεῦμα, pnèuma). È l’essere che si vede e che può essere mosso sia dall’anima (la vita naturale umana con tutte le sue facoltà intellettuali e volitive) sia dallo spirito (che per i discepoli di Yeshùa è lo spirito di Dio, lo spirito santo che dimora in loro).

   Paolo, se dovesse continuare a vivere, vuole dedicarsi al ministero della predicazione, che è il servizio più bello che si può rendere a Dio. Se dovesse morire, perché condannato nel processo, egli darà in tal modo la più bella testimonianza del Cristo. Si noti di come egli non sia sicuro di come andrà a finire il processo. Se spera di salvarsi lo fa solo per presentimento personale e non con la certezza della rivelazione divina.