Vita o morte è sempre il Cristo

 

Flp 1

21 “Infatti per me il vivere è Cristo e il morire guadagno.
22 Ma se il vivere nella carne porta frutto all’opera mia, non saprei che cosa preferire.
23 Sono stretto da due lati: da una parte ho il desiderio di partire e di essere con Cristo, perché è molto meglio;
24 ma, dall’altra, il mio rimanere nel corpo è più necessario per voi.
25 Ho questa ferma fiducia: che rimarrò e starò con tutti voi per il vostro progresso e per la vostra gioia nella fede,
26 affinché, a motivo del mio ritorno in mezzo a voi, abbondi il vostro vanto in Cristo Gesù”.

   Se la vita per Paolo significasse ricchezza, potere e personalità, allora la morte sarebbe terribile e temibile. Per i giudei la morte era una non esistenza. Ma per Paolo vivere significa Cristo, essere uno con lui. Proprio perché è uno con lui, a Paolo la morte non appare più paurosa perché non potrà spezzare questa’unione (v. 23): “Sono persuaso che né morte, né vita, né angeli, né principati, né cose presenti, né cose future, né potenze, né altezza, né profondità, né alcun’altra creatura potranno separarci dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8:38,39). In questo senso, la morte è in realtà un “guadagno”. – V. 21.

   Si noti la differenza tra il concetto di Paolo qui presentato e quello dell’apocrifa Apocalisse di Baruc: “I giusti sperano la fine e senza timore lasciano la loro abitazione, perché essi porteranno con sé una quantità di opere preservate come tesori” (14:12). Simile – ma non uguale – a questo concetto è anche il concetto dell’Apocalisse biblica: “Essi si riposano dalle loro fatiche perché le loro opere li seguono” (Riv 14:13). La precedente mentalità di Paolo, da scrupoloso giudeo, era che con le opere si guadagnasse la salvezza. Ora sa che non è così. Ma non si faccia l’errore di capire che le opere non servano più. Le opere in quanto tali non guadagnano la salvezza. La salvezza viene per fede. Ma “la fede senza le opere è morta” (Gc 2:26). Opere quindi come risposta a Dio per la fede che ci concede in Yeshùa, non come mezzo di salvezza. Paolo non ripone la sua fiducia nelle eventuali opere buone che avesse compiuto, ma nel Cristo. È di certo la via migliore. Qui non c’è posto per l’orgoglio, per i meriti, per la vanagloria. Qui si dà adito solo al ringraziamento in Cristo.

   “Il vivere nella carne” del v. 22 è un modo che significa vita terrena destinata a morire e che può essere sorgente di peccato e di fatica, ma anche sorgente di frutti spirituali. Si presti attenzione al fatto che la vita è qui ἐν σαρκί, en sarkì, “nella carne”; non “nel corpo” come al v. 20 (ἐν τῷ σώματί, en to sòmati). Ciò sottolinea la debolezza della vita che noi oggi trascorriamo e che viene meno con la morte. Da qui l’indecisione di Paolo nel fare una scelta personale.

   Al v. 21 Paolo aveva detto che per lui il morire è guadagno, ora al v. 23 ne spiega il perché: “Ho il desiderio di partire e di essere con Cristo, perché è molto meglio”. Qui Paolo non segue per nulla le idee dei catari medievali che, ritenendo che la morte fosse una liberazione, cercavano perfino di procurarsela con il suicidio (“consolamentum”, consolazione). Per Paolo la morte non è neppure vista come pensano i Testimoni di Geova, come la fine di ogni cosa, come la distruzione totale dell’essere. Con la morte tutto finisce, dicono costoro, perché non vi è anima, e la vita individuale sarà nuovamente ricreata da Dio nella resurrezione. Secondo la Bibbia, invece, qualcosa resta dopo la morte, in quanto:

  • Il legame con Yeshùa diviene più vivo di quanto non lo sia in vita.
  • Mentre ora si è “in Cristo” (= uniti a lui), allora si sarà “con il Cristo”: ἐν Χριστῷ  (en Christò), “in Cristo”, v. 26; σν Χριστῷ  (sün Christò), “con Cristo”, v. 23. Con, non solo “in”.
  • La vita ultraterrena non sarà un sonno del tutto incosciente, perché secondo l’Apocalisse i morti (vale a dire le anime-creature tuttora viventi dei martiri) domandano a Dio fino a quando resteranno sotto l’altare come degli immolati: “Vidi sotto l’altare le anime di quelli che erano stati uccisi per la parola di Dio e per la testimonianza che gli avevano resa. Essi gridarono a gran voce: ‘Fino a quando aspetterai, o Signore santo e veritiero, per fare giustizia e vendicare il nostro sangue su quelli che abitano sopra la terra?’”. – Ap 6:9,10.
  • Se la morte fosse un puro sonno incosciente, Paolo non avrebbe interesse a morire. Per lui non sarebbe il meglio.
  • Si tratta di qualcosa che vive, grazie allo spirito di Cristo, per l’unione che si ha con il Cristo e che con la morte diverrà ancora più intima. Sulla terra siamo sempre in pericolo di colpa, siamo distratti da tante altre cose; dopo la morte non vi sarà più pericolo di cadere, e tutto il nostro pensiero sarà centrato nella salvezza che abbiamo in Cristo e con Cristo. Yeshùa ha garantito: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà”. – Gv 11:25.
  • Anche se è vero che altrove Paolo è piuttosto interessato all’escatologia collettiva (1Ts, 2Ts, 1Cor 15), di fatto non trascura mai la fine individuale della persona (che lo mette direttamente in contatto con Dio). L’“essere con [σν (sün)] Cristo” (v. 23) significa un immediato congiungimento con lui ancora prima della resurrezione dei corpi, altrimenti non si comprenderebbe come Paolo avesse il desiderio di morire subito.

   Vi è un giudizio particolare? Più che un giudizio, c’è un incontro con Yeshùa. Come avvenga questo incontro, anteriore alla resurrezione, non lo sappiamo.

   Paolo pensa di rivedere i filippesi (vv. 24-26). Sembra che tale presentimento non si sia avverato, come risulta dalle lettere pastorali: “Ti ripeto l’esortazione che ti feci mentre andavo in Macedonia, di rimanere a Efeso” (1Tm 1:3); “Tu sai questo: che tutti quelli che sono in Asia mi hanno abbandonato”, “Tu sai pure molto bene quanti servizi mi abbia reso a Efeso”, “Erasto è rimasto a Corinto; Trofimo l’ho lasciato ammalato a Mileto” (2Tm 1:15,18;4:20). Paolo pensa di poter rivedere i filippesi, ma non ne ha la certezza: “Sia che io venga a vedervi sia che io resti lontano” (Flp 1:27).  Quindi non ha su questo la rivelazione profetica. Anche in un’altra occasione Paolo ebbe un analogo presentimento che poi non si avverò: “Io so che voi tutti fra i quali sono passato predicando il regno, non vedrete più la mia faccia” (At 20:25); qui Paolo pensa di non poter più rivedere quelli di Efeso (v. 17), ma poi li rivide: “Ti incoraggiai a rimanere a Efeso quando stavo per andarmene in Macedonia”. – 1Tm 1:3.

   Paolo pensa che la situazione attuale della vita terrena, nonostante tutte le debolezze e le malattie, è necessaria per i filippesi, e quindi s’immagina di poter vivere ancora per rivederli ed aiutarli. – V. 26.

   Al v. 24 NR ha: “Il mio rimanere nel corpo è più necessario per voi”, ma la traduzione non è accurata, perché il greco ha “carne” e non “corpo”. TNM traduce bene con “carne”, ma è meno letterale nel tradurre il verbo: “È più necessario che io rimanga nella carne”. Il greco ha, letteralmente: “Il rimanere [nella] carne” ἐπιμένειν [ἐν] τῇ σαρκὶ (epimènein [en] te sarkè). Come si nota dalla citazione dal manoscritto greco, la preposizione en (ἐν) è posta tra parentesi quadre. Pare che al posto di “nella carne” sia preferibile accettare il semplice dativo “alla carne”, senza la preposizione “in”. Infatti, con il verbo epimènein (“rimanere”), Paolo non usa mai la preposizione en (“in”). Il solo dativo (“alla carne”) indica in greco il permanere in vita legato alle condizioni della vita presente con tutti i suoi inconvenienti. Così, in Col 1:23: “Purché, naturalmente, rimaniate nella fede [greco ἐπιμένετε τῇ πίστει (epimènete te pìstei), letteralmente: “rimanete alla fede”, non ‘nella fede’; semplice dativo]” (TNM). E così anche in 1Tm 4:16, dove TNM traduce liberamente: “Attieniti a queste cose”, mentre il greco ha ἐπίμενε αὐτοῖς (epìmene autòis), letteralmente: “Rimani a queste cose” (anche qui semplice dativo senza l’”in” che renderebbe la frase: ‘Rimani in queste cose’).

   V. 26: “Il vostro vanto in Cristo Gesù”. TNM ha: “La vostra esultanza”. La parola greca è καύχημα (kàuchema), numero Strong 2745. Non si tratta di un’emozione passeggera come l’esultanza, ma proprio di “vanto”. Il Vocabolario del Nuovo Testamento dà di kàuchema questa definizione: 1) quello di cui si ci vanta o ci si gloria, motivo di vanto 2) un vanto. Il gloriarsi dei filippesi riguarda la conoscenza del Vangelo quale si ha in cristo. Attenzione, conoscenza in senso biblico: non per aver fatto degli “studi biblici”, ma per averlo sperimentato nella loro vita. I discepoli di Yeshùa si gloriano in lui, non negli uomini, si tratti pure di Paolo. L’apostolo è solo il mezzo per cui cresce tale vita in Cristo e per cui il discepolo o la discepola può gloriarsi di lui.

   Paolo parla del suo “ritorno” in mezzo ai filippesi; “presenza”, secondo TNM. Il greco ha παρουσία (parusìa): “A motivo della mia parusìa in mezzo a voi”. Si tratta della venuta o del ritorno di Paolo in mezzo ai filippesi.