Contro i giudaizzanti

 

“Infine, fratelli miei, continuate a rallegrarvi nel Signore” (3:1, TNM). Si riprende il tema caratteristico della lettera: la gioia (cfr. 2:17;2:28,29). Questa gioia deve però essere “nel Signore”, frutto cioè dell’unione con Yeshùa. Questa gioia deve essere continua. Rende bene TNM: “continuate a rallegrarvi”, infatti, il greco usa l’imperativo presente (χαίρετε, chàirete) che indica la continuazione dell’azione. In più c’è la presenza di un’espressione avverbiale rafforzativa che ha il senso di “sempre”, e che TNM scambia per “infine”. L’espressione greca è τὸ λοιπόν (to loipòn), letteralmente “il resto”. NR traduce “del resto”, ma in questo contesto è un’espressione equivoca. “Infine” è certamente inappropriato: siamo infatti a metà lettera, dopo due capitoli e ne mancano altri due; Paolo non sta chiudendo la sua lettera. Paolo dice: “Da ora in avanti, fratelli miei, continuate a rallegrarvi nel Signore”.

   Paolo si rivolge ora con enfasi a coloro che creano difficoltà nella giovane congregazione di Filippi e che sono giudei o almeno giudaizzanti. Costoro erano anche capaci di rivolgersi all’autorità romana (At 17:6,7). L’enfasi di Paolo appare dalla triplice ripetizione del verbo “guardatevi”: “Guardatevi dai cani, guardatevi dai cattivi operai, guardatevi da quelli che si fanno mutilare”; aggravata dalla parola “cani” e dall’espressione “quelli che si fanno mutilare” (3:2). Quest’ultima espressione è nel testo greco βλέπετε τὴν κατατομήν (blèpete ten katatomèn), letteralmente: “Guardatevi dalla mutilazione”; si tratta di un astratto per il concreto, alludendo alla circoncisione.

   Il termine “cani” era molto più spregevole in oriente che in occidente. In oriente, infatti, i cani non erano addomesticati, ma scorazzavano senza padrone per le vie della città, ripulendole dai rifiuti; erano quindi considerati impuri. Gli ebrei chiamavano “cani” i pagani (cfr. Mr 7:27, dove però Yeshùa usa la sfumatura “cagnolini”, che ne mitiga alquanto la durezza). Qui Paolo ritorce contro gli ebrei (o forse solo giudaizzanti?) l’epiteto “cani”.

   Per Paolo i veri circoncisi non solo coloro che “mutilano” il loro prepuzio, ma i credenti che anziché riporre la propria fiducia nella mutilazione carnale, offrono a Dio un vero culto attuato mediante lo spirito. Gv 4:24 potrebbe essere preso come spiegazione del passo presente: “Dio è Spirito; e quelli che l’adorano, bisogna che l’adorino in spirito e verità”. La vera Israele è data dai credenti che si vantano in Yeshùa, loro unico mediatore e speranza di salvezza. “I veri circoncisi siamo noi, che offriamo il nostro culto per mezzo dello Spirito di Dio, che ci vantiamo in Cristo Gesù, e non mettiamo la nostra fiducia nella carne”. – 3:3.

   Paolo, a differenza di tanti filo-ebrei boriosi, avrebbe del resto molti titoli con cui vantarsi di se stesso. “Se qualcun altro pensa di aver motivo di confidarsi nella carne, io posso farlo molto di più” (3:4). Tre di questi titoli gli vengono dalla nascita e tre dalla sua attività:

Titoli di Paolo (3:5,6)

Dalla nascita

Valore

1

“Circonciso

l’ottavo giorno”

Come prescriveva la Legge, e non divenuto tale quand’era adulto (come molti proseliti).
2

“della tribù

di Beniamino”

Vale a dire della tribù che con la tribù di Giuda – dopo la separazione delle dieci tribù settentrionali – costituì la vera Israele. Beniamino era anche l’unico figlio di Giacobbe (o Israele) nato in terra promessa (Gn 35:16,17). Beniamino fu anche la prima tribù a entrare nel Mar Rosso.
3

“ebreo figlio d’Ebrei”

Di pura razza ebraica. Di famiglia che non era ellenista, ma autenticamente ebrea, sia di discendenza sia di lingua.

Per la sua attività

Valore

1

“Fariseo”

Nome derivante da farùsh e significante “separato”. I farisei erano la setta più rigida nell’osservanza della Legge (At 26:5). Come tale era stimato dagli ebrei. Non solo Paolo, ma anche suo padre era un vero fariseo, per cui tutta la sua famiglia era d’intonazione tipicamente rigida verso la Legge. Paolo era stato pure discepolo di Gamaliele, uno dei più grandi rappresentanti del rabbinismo farisaico. – At 22:3.
2

“persecutore della chiesa”

Rigido osservante della Legge, si era opposto alla congregazione di Yeshùa che non era così rigida nelle osservanze. Paolo aveva la sicurezza di dare così gloria a Dio. – 1Cor 15:9: 1Tm 1:12,13.
3

“irreprensibile”

Rigido nell’osservanza più perfetta della Legge. Poteva quindi essere chiamato “giusto”, perché senza colpa e irreprensibile. Era questa la sostanza del fariseismo.

   Il fatto che Paolo menzioni questi ultimi tre titoli, quelli relativi alla sua attività, fa supporre che i suoi avversari fossero ebrei e non discepoli di Yeshùa giudaizzanti. Ma è solo una supposizione.

   Al v. 7 abbiamo la preposizione avversativa “ma” (greco ἀλλὰ, allà): “Ma . . .”. Posta così, all’inizio della frase, indica il più netto contrasto con quanto precede. Prima, tutti i titoli riferiti costituiscono un vanto per l’apostolo. Ora invece sono piuttosto un “danno” nei riguardi della salvezza che proviene solo da Yeshùa (v. 7): “Ma ciò che per me era un guadagno, l’ho considerato come un danno, a causa di Cristo”.

   “Anzi, a dire il vero, ritengo che ogni cosa sia un danno di fronte all’eccellenza della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore” (v. 8). Con la superiorità (”eccellenza”) della conoscenza di Yeshùa il suo giudizio dei valori umani fu totalmente cambiato. Talmente cambiato che ciò che prima era motivo di gloria, adesso è divenuto “spazzatura” (v. 8). La Volgata latina ha presentato in modo molto più drastico questa realtà, con una parola ben intonata al contesto: “stercora”, sterco. Di tutto Paolo si è sbarazzato pur di afferrare lui, il suo salvatore: “Io considero queste cose come tanta spazzatura al fine di guadagnare Cristo” (v. 8). Conoscere in modo pratico (per esperienza) Yeshùa, è afferrarlo, essergli unito, possederlo ed essere da lui posseduto.

   Tramite quest’unione con Yeshùa, proprio mediante questa comunione con lui, non si possiede più una propria giustizia “derivante dalla legge, ma con quella che si ha mediante la fede in Cristo: la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede” (v. 9). È la giustizia di Dio. “Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, essendo divenuto maledizione per noi (poiché sta scritto: ‘Maledetto chiunque è appeso al legno’” (Gal 3:13). Qui si nota come il divenire un discepolo di Yeshùa produce un ravvedimento totale, vale a dire una valutazione completamente diversa dei valori umani e terreni. Un credente che giudicasse la realtà secondo il mondo, non sarebbe veramente convertito al Signore. La domanda che non possiamo eludere è: abbiamo noi la stessa valutazione di Paolo? Per noi Yeshùa è veramente tutto?

   Fu proprio per questa fede che Paolo poté conoscere il Messia, e conseguentemente sperimentare la potenza della sua resurrezione e la partecipazione alle sue sofferenze. “Tutto questo allo scopo di conoscere Cristo, la potenza della sua risurrezione, la comunione delle sue sofferenze, divenendo conforme a lui nella sua morte” (v. 10). La fede abbraccia, infatti, il Cristo morto e risorto: “Crediamo in colui che ha risuscitato dai morti Gesù, nostro Signore, il quale è stato dato a causa delle nostre offese ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione” (Rm 4:24,25), “Cristo Gesù, che da Dio è stato fatto per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione” (1Cor 1:30), “Lo ha innalzato con la sua destra, costituendolo Principe e Salvatore, per dare ravvedimento a Israele, e perdono dei peccati”. – At 5:31.

   Per fede si comprende la necessità di dover partecipare alle sofferenze di Yeshùa, come indicano molti passi biblici:

“Beati voi, quando vi insulteranno e vi perseguiteranno”

Mt 5:11

“’Potete voi bere il calice che io sto per bere?’. Essi gli dissero: ‘Sì, lo possiamo’. Egli disse loro: ‘Voi certo berrete il mio calice’”

Mt 20:22,23

“Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi”

Gv 15:20

“Veramente soffriamo con lui, per essere anche glorificati con lui”

Rm 8:17

“Abbondano in noi le sofferenze di Cristo”

2Cor 1:5

“Portiamo sempre nel nostro corpo la morte di Gesù”

2Cor 4:10

“Quel che manca alle afflizioni di Cristo lo compio nella mia carne a favore del suo corpo che è la chiesa”

Col 1:24

“Vi è stata concessa la grazia, rispetto a Cristo, non soltanto di credere in Lui, ma anche di soffrire per lui”

Flp 1:29

“Rallegratevi in quanto partecipate alle sofferenze di Cristo”

1Pt 4:13

   La sofferenza del credente è il preludio della sua futura glorificazione: uniti alla “passione” del Messia, i fedeli saranno poi anche uniti alla sua gloria. Il battesimo, nel suo simbolismo, include appunto morte e resurrezione: esso è caparra di ciò che in futuro avverrà in tutti i credenti.

   In 3:10 (“Divenendo conforme a lui nella sua morte”) il verbo “divenendo conforme” deriva dalla parola morfè (che abbiamo già esaminato in 2:7): συμμορφιζόμενος (sümmorfizòmenos) e significa “riproducente la stessa immagine”, riferito al riprodurre le sofferenze del Cristo come un’immagine riproduce l’originale Si noti qui il participio presente (reso in italiano con il gerundio presente): l’azione è continuata, mettendo così in risalto il nostro obbligo di continuare nell’imitazione delle sofferenze di Yeshùa per l’intera vita. “Siamo dunque stati sepolti con lui mediante il battesimo nella sua morte, affinché, come Cristo è stato risuscitato dai morti mediante la gloria del Padre, così anche noi camminassimo in novità di vita”. – Rm 6:4.

   “Per giungere in qualche modo alla risurrezione dei morti” (3:11). TNM ha: “[Per vedere] se in qualche modo  […]”.  Questo è più conforme al greco che inizia la frase con εἴ (èi): “se”. L’idea è: “se mai”, forma ipotetica e anche  di modestia. Paolo dice: Se mai mi fosse concesso di giungere alla resurrezione dai morti. Qui è espressa la consapevolezza di poter contare solo sulla giustizia di Dio per raggiungere tale meta.

   “Resurrezione”: nel greco è ἐξανάστασις (ecsanàstasis), parola che ricorre solo qui in tutte le Scritture Greche. Parola che vuol sottolineare la resurrezione, che è frutto dell’attività del Cristo e non propria: “Questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nessuno di quelli che egli mi ha dati, ma che li risusciti nell’ultimo giorno. Poiché questa è la volontà del Padre mio: che chiunque contempla il Figlio e crede in lui, abbia vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno”, “Io lo risusciterò”, “E io lo risusciterò”. – Gv 6:39,40,44,54.