L’abolizione della schiavitù nel corso dei secoli
L’abolizione della schiavitù si attuò purtroppo assai lentamente. La responsabilità principale è da attribuirsi alla “Chiesa” che dimenticò di valorizzare i germi fecondi della fraternità presentati da Paolo. Prima che il “Cristianesimo” s’imponesse nel mondo, la schiavitù era diffusa in tutto il mondo allora conosciuto: presso gli egizi, gli assiro-babilonesi, i greci, i romani. La schiavitù fu ammessa perfino da Platone, da Aristotele e da altri sapienti dell’antichità.
La schiavitù era ammessa anche presso gli ebrei, ma con varie limitazioni e con trattamenti molto più umani che presso gli atri popoli. In Israele potevano, come regola generale, essere fatti schiavi i non israeliti. Se un israelita era ridotto in schiavitù, dopo sei anni ritornava libero e il padrone doveva assicurargli un minimo essenziale per vivere. In Israele lo schiavo non poteva essere maltrattato dal padrone: in caso di gravi lesioni doveva essergli riconosciuta la libertà: “Se uno colpisce l’occhio del suo schiavo o l’occhio della sua schiava e glielo fa perdere, li lascerà andare liberi in compenso dell’occhio perduto. Se fa cadere un dente al suo schiavo o un dente alla sua schiava, li lascerà andare liberi in compenso del dente perduto”. – Es 21:26,27.
Il vangelo portò nel mondo pagano gli insegnamenti più alti della fraternità, della parità e dell’amore reciproco fra tutti gli uomini e le donne. Esso animò di questi nobilissimi ideali tutta la vita sociale dei fedeli. I discepoli di Yeshùa si sentirono fratelli e paritari davanti a Dio, senza distinzione di dignità e di diritti. Nelle riunioni liturgiche non c’era distinzione tra padroni e schiavi. Né c’era distinzione nella gerarchia e nelle sepolture (le ossa dei martiri Proto e Giacinto, schiavi, furono trovate avvolte in stoffe intessute d’oro, come era d’uso per i patrizi). Gli schiavi liberati potevano diventare “vescovi”. Perfino nella Chiesa ormai apostata, nei suoi inizi gli schiavi potevano diventare papa (come, ad esempio, Callisto I).
Il vangelo si propagò anzi tra gli schiavi, pur predicando la sottomissione ai padroni (specialmente se questi erano pagani). Scrive Tertulliano: “Se un cristiano è schiavo di un pagano gli si insegnerà ad accontentare il suo padrone” (De corruptione, cap. 13). Dai documenti antichi che possediamo sappiamo che erano lodati i padroni che liberavano gli schiavi, anche se non si imponeva loro di farlo.
Con Costantino e Teodosio, dopo la “cristianizzazione” dell’impero romano, si migliorarono le condizioni degli schiavi. Non si fecero più le lotte dei gladiatori, non avvenne più la separazione di un membro dalla sua famiglia, non ci furono più le difficoltà precedenti per l’affrancamento degli schiavi.
Nel Medio Evo si tolleravano i servi della gleba (che erano quasi degli schiavi). Si ammise anzi la schiavitù per i non “cristiani”. Si lottò solo per impedire che i “cristiani”, anche se prigionieri di guerra, fossero ridotti schiavi. In quel tempo i saraceni erano venduti dagli stessi “cristiani” nei pubblici mercati.
Per opera del cosiddetto Cristianesimo, nel corso dei secoli la condizione dello schiavo venne elevata nella vita familiare, nel lavoro, nei rapporti con i padroni. Anche con il dono della libertà. Per esempio, “santa” Melania, vissuta nel 5° secolo, emancipò in una sola volta 8000 schiavi. Gli imperatori dopo Costantino (specialmente Teodosio e Giustiniano) favorirono l’affrancamento dei “cristiani”.
I cosiddetti padri della Chiesa hanno variamente riprovato la schiavitù e spesso hanno cercato di riscattare e liberare gli schiavi con ogni mezzo (anche vendendo gli ornamenti del culto). Vanno ricordati Ambrogio, Ilario di Potiers, Gregorio, Agostino, Cirillo Gerosolimitano.
Dopo le invasioni barbariche e per tutto l’alto Medio Evo continuò in varie forme la pratica della schiavitù, anche se le condizioni degli schiavi migliorarono. Non mancarono tuttavia gravi abusi da parte di “cristiani”.
Sappiamo anche che gli schiavi spesso erano liberati dai padroni quando ricevevano il battesimo. Quanto fossero sincere queste conversioni è tutto dire. D’altra parte, i padroni liberavano gli schiavi anche per testamento in punto di morte, per “salvarsi l’anima”. Si legge, ad esempio, in un documento del 9° secolo: “Io, Heimrich, per timore di Dio e per la salvezza dell’anima mia, ho liberato la mia schiava Reginheid con i suoi figli e un’altra schiava, Zeizbirc. Esse devono essere libere e non devono essere costrette a servire uno dei nostri eredi. Eseguito pubblicamente in Biblisheim il 16 luglio dell’anno 873 dall’incarnazione del Signore, mentre regnava Ludovico nelle Gallie. Testimoni: […]. Io ho scritto e firmato questo documento”. Un gesto nobile? Lo sarebbe stato se il nostro Heimrich lo avesse fatto molto prima e non in punto di morte per “salvarsi l’anima”.
Dalla seconda metà del ‘400, con le grandi scoperte geografiche e successivamente per opera dei colonizzatori del Nuovo Mondo, dilagò la piaga dei negri praticata dal Portogallo, dalla Spagna, dalla Francia e soprattutto dall’Inghilterra. Per vari secoli migliaia e migliaia e migliaia di neri furono strappati dall’Africa e venduti, portati in condizioni bestiali nelle coltivazioni d’America.
Nel 15° secolo papa Nicolò V in un breve apostolico datato 1432 concesse al re Alfonso V del Portogallo il diritto di ridurre in schiavitù gli africani nelle terre liberate dai saraceni. Papa Sisto IV insorse solo contro coloro che rendevano schiavi i negri battezzati.
Si deve attendere fino al 1839 perché un papa insorga contro la schiavitù. Papa Gregorio XVI, con bolla In supremo decretò: “Ingiungiamo che nessuno osi in avvenire vessare impunemente gli indi, i negri e altri uomini e ridurli in schiavitù”. Ma, si noti bene: siamo nel 1839! Molti nostri bisnonni erano ancora vivi. Non possiamo che stupirci di tanto ritardo. Stupirci o scandalizzarci? Il fatto è che la Chiesa Cattolica, come qualsiasi altra struttura umana, ha preso coscienza solo molto ma molto lentamente dell’immoralità della schiavitù. Prima di tutto s’interessò dei suoi membri. Si pensi che all’inizio la Chiesa Cattolica Romana non considerava veri uomini i mussulmani. Non si può che concordare con C. Duquoc: “I dati storici concreti forniscono la spiegazione, ma le parole del Signore: Amate i vostri nemici, non è forse detta a quelle collettività che si proclamano cristiane? E quale amore trascendente c’è nell’amare coloro che ci amano? I pagani non fanno altrettanto? Nessuna apologetica, nessuno stile ufficiale cancellerà mai l’accusa che nasce da quelle parole”. – La Chiesa e il progresso, Borla, pag. 83.
Di questo richiamo dovrebbero far tesoro, se mai ci riescono, certi gruppi religiosi che sbandierano l’amore per il prossimo. Nelle calamità come terremoti e inondazioni sono prontissimi a venire in aiuto. Ma in aiuto ai loro membri. Lo sbandierato amore per il prossimo si scopre poi che consiste solo nel distribuire letteratura religiosa di casa in casa. Verso chi accetta e diviene membro, braccia aperte. Chi non accetta, terremotato o sofferente che sia, è quasi ignorato (tanto, alla fine, sarà “distrutto”, no?). “E quale amore trascendente c’è nell’amare coloro che ci amano? I pagani non fanno altrettanto? Nessuna apologetica, nessuno stile ufficiale cancellerà mai l’accusa che nasce da quelle parole”. – Ibidem; cfr. anche Gc 2:14-16.