Saluti finali (4:7-18).
La congregazione di Colosse riceverà notizie direttamente dai due collaboratori di Paolo che portano la lettera, Tichico e Onesimo: “Tutto ciò che mi riguarda ve lo farà sapere Tichico, il caro fratello e fedele servitore, mio compagno di servizio nel Signore. Ve l’ho mandato appunto perché conosciate la nostra situazione ed egli consoli i vostri cuori; e con lui ho mandato il fedele e caro fratello Onesimo, che è dei vostri. Essi vi faranno sapere tutto ciò che accade qui”. – Vv. 7-9.
Tichico accompagnò Paolo nel suo ultimo viaggio a Gerusalemme (At 20:4). Fu forse anche in rapporto con la congregazione di Efeso: “Tichico l’ho mandato a Efeso” (1Tm 4:12; cfr. Tit 3:12). In Ef 6:21 leggiamo: “Tichico, il caro fratello e fedele servitore nel Signore, vi informerà di tutto”, ma questo passo non è utilizzabile per provare il rapporto di Tichico con la congregazione di Efeso perché non sappiamo se Ef era davvero indirizzata alla comunità di Efeso. Infatti, sebbene NR traduca Ef 1:1: “Paolo, apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio, ai santi che sono in Efeso”, i manoscritti P46,א* e B* omettono “in Efeso”.
Onesimo è lo schiavo che era fuggito dal suo padrone Filemone e di cui Paolo chiese la liberazione perché ne desiderava l’aiuto. Dato che qui è chiamato “fedele e caro fratello” senza riferimento al suo precedente stato di schiavo, possiamo dedurre che un po’ di tempo era già passato dalla stesura della lettera a Filemone e che Onesimo era già tornato da Paolo divenendo ben noto alla comunità. Ignazio di Antiochia, scrivendo verso il 110 alla congregazione di Efeso, ci informa che un tale Onesimo ne era “vescovo”. È possibile, anche se non è certo che si tratti della stessa persona. Se era lui, doveva essere alquanto vecchio (sull’ottantina).
Paolo manda poi i saluti di Aristarco che viene presentato come “compagno di prigionia” dell’apostolo (v. 10). Dal contesto sembra che questi sia stato in prigione con Paolo e non solo che fosse ‘prigioniero come lui in Cristo’. Non si vedrebbe, infatti, come questa parola sarebbe riferita solo a lui e non anche agli altri che pur erano ‘prigionieri in Cristo’. Quando Paolo parla di ‘prigionieri in Cristo’ usa la parola σύνδουλοι (sΰnduloi), “con-schiavi” (conservi), come in Col 1:7: “Epafra nostro diletto compagno di schiavitù [συνδούλου (sündùlu)]” (TNM) e come in Col 4:12: “Epafra […] schiavo [δοῦλος (dùlos)] di Cristo” (TNM). Qui in 4:10, invece, abbiamo Ἀρίσταρχος ὁ συναιχμάλωτός μου (Arìstarkos o sünaichmàlotòs mu), “Aristarco il compagno di prigionia di me”. O era stato in prigione con lui oppure era stato chiamato insieme a Paolo e ‘fatto prigioniero’ da Yeshùa.
Ai saluti si unisce anche “Marco, il cugino di Barnaba” (v. 10). Probabilmente si tratta di Giovanni Marco, l’autore del secondo Vangelo. Costui prima era stato in disaccordo con Paolo al punto di abbandonarlo durante il suo primo viaggio missionario: “Barnaba voleva prendere con loro anche Giovanni detto Marco. Ma Paolo riteneva che non dovessero prendere uno che si era separato da loro già in Panfilia, e non li aveva accompagnati nella loro opera. Nacque un aspro dissenso, al punto che si separarono; Barnaba prese con sé Marco e s’imbarcò per Cipro” (At 15:37-39). Ora però è pienamente rappacificato con Paolo, che anzi lo raccomanda perché sia ben accolto a Colosse: “Se viene da voi, accoglietelo” (v. 10). Altre notizie di Marco le troviamo in At 12:12,25;13:13). Si noti, qui in 4:10, come Marco sia chiamato “cugino” (ἀνεψιὸς, anepsiòs), smentendo così l’usuale asserzione cattolica che gli ebrei non avevano un termine per indicare i cugini. Questa tesi viene sostenuta dai teologi cattolici per affermare che i fratelli di Yeshùa sarebbero stati suoi cugini. Se gli ebrei, parlando in ebraico, indicavano il cugino con ben dod (דוד בן), “figlio dello zio”, i greci avevano il termine apposito ἀνεψιὸς (anepsiòs). Va poi rimarcato che lo stesso Paolo, che qui usa il termine “cugino” (ἀνεψιὸς, anepsiòs) riferito a Marco, altrove parlando di Giacomo lo chiama “fratello [ἀδελφὸν (adelfòn)] del Signore” (Gal 1:19). Il che mostra ampiamente che Giacomo era un vero fratello e non un semplice cugino di Yeshùa.
Unitamente a Marco è ricordato un “Gesù, detto Giusto” (v. 11). Il nome era allora comune. “Gesù” è la traduzione di una traduzione, o meglio la traslitterazione di una traslitterazione. Il vero nome di quella persona era יהושע (Yehoshùa), già nome del generale militare che condusse Israele nella terra promessa, tradotto in italiano “Giosuè” e tradotto in greco Ἰησοῦς (Iesùs). Nelle lingue occidentali si è creata una palese incongruenza, in quanto lo stesso identico nome – יהושע (Yehoshùa) in ebraico e Ἰησοῦς (Iesùs) in greco – ha avuto due trattamenti diversi: è stato tradotto “Giosuè” e “Gesù”. Eppure è lo stesso identico nome. L’errore, nel caso di “Gesù”, fu quello di tradurre una traduzione. È come se in italiano, anziché dire “Ludovico” per tradurre il germanico “Ludwig”, qualcuno avesse tradotto “Ludvigio”. Un assurdo. O come se, per tradurre il francese “Françoise”, anziché usare “Francesca” si fosse usato “Fransuasa”. Assurdo, appunto. Sarebbe stato logico e corretto tradurre invece Yehoshùa come sempre: “Giosuè”. Ma perché non usare il nome originale? Comunque, questo “Gesù” (Yehoshùa) di 4:11, è detto “Giusto” (Ἰοῦστος, Iùstos), probabilmente per il suo zelo verso la Legge di Dio. La parola Ἰοῦστος (Iùstos) è la grecizzazione della parola latina iustus (“giusto”), che Paolo applica a Giuseppe, chiamato Barsabba (At 1:23), a Tizio, un discepolo di Corinto con cui Paolo alloggiò (At 18:7) e a questo “Gesù” di 4:11. In greco è δίκαιος (dìkaios). Anche questo particolare dimostra come la prima congregazione dei discepoli di Yeshùa continuava a osservare la Legge. Gli ebrei che erano particolarmente zelanti nell’osservanza della Legge erano detti “giusti”. La parola ebraica è צַדִּיק (tzadìq), “giusto”. La parola greca corrispondente, δίκαιος (dìkaios), numero Strong 1342, è un aggettivo che significa: “Retto, che osserva le leggi divine; virtuoso, che custodisce i comandi di Dio; colui di cui modo di pensiero, sentimento e agire è completamente conforme alla volontà di Dio; approvato da Dio o accettabile a Dio” (Vocabolario del Nuovo Testamento). Ovviamente, l’essere uno tzadìq o dìkaios (“giusto”) non fa acquisire in sé la salvezza. Questa era l’idea ebraica dei farisei. Paolo mostra che “ora indipendentemente dalla legge la giustizia di Dio è stata resa manifesta […]; sì, la giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che hanno fede. […] Ed è come gratuito dono che son dichiarati giusti per sua immeritata benignità tramite la liberazione mediante il riscatto [pagato] da Cristo Gesù” (Rm 3:21-24, TNM). Ciò che cambia non è l’osservanza della Legge, ma lo scopo di quell’osservanza. Per i giudei che non accettavano Yeshùa, lo scopo era quello di avere la salvezza, per i discepoli di Yeshùa è quello di ubbidire a Dio nella fede e di restituire a Dio parte del suo immenso amore con l’ubbidienza. Qui ci interessa, comunque, il significato biblico della parola “giusto”.
Scritture Greche (TNM) |
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Testo |
Greco |
|
“Non gli uditori della legge sono giusti dinanzi a Dio, ma gli operatori della legge saranno dichiarati giusti”. – Rm 2:13. |
δίκαιοι |
dìkaioi |
“Io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori”. – Mt 9:13. |
δικαίους |
dikàius |
“Molti profeti e uomini giusti* desiderarono vedere le cose che voi vedete”. – Mt 13:17. |
δίκαιοι |
dìkaioi |
“Erano giusti dinanzi a Dio perché camminavano irreprensibilmente secondo tutti i comandamenti”. – Lc 1:6. |
δίκαιοι |
dìkaioi |
“Vi siete accostati […] a Dio Giudice di tutti, e alle vite spirituali dei giusti che sono stati resi perfetti”. – Eb 12:22,23. |
δικαίων |
dikàion |
* Qui TNM confonde le acque: il testo greco non ha “uomini giusti”, ma solo “giusti”.
L’uso ebraico che le Scritture Greche fanno della parola “giusto” è in perfetta armonia con le Scritture Ebraiche.
Scritture Ebraiiche (TNM) |
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Testo |
Ebraico |
Greco (LXX) |
“La bocca del giusto è quella che esprime sottovoce sapienza […]. La legge del suo Dio è nel suo cuore”. – Sl 37:30,31; nella LXX è in 36:30,31. |
צַדִּיק (tzadìq) |
δικαίου (dikàiu) |
“Le vie di Geova sono rette, e i giusti son quelli che vi cammineranno”. – Os 14:9; nel Testo Masoretico al v. 9. |
צַדִּקִים (tzadiqìm) |
δίκαιοι (dìkaioi) |
“I giusti stessi possederanno la terra” *. – Sl 37:29; nella LXX è in 36:29. |
צַדִּקִים (tzadiqìm) |
δίκαιοι (dìkaioi) |
*“Amando Geova tuo Dio, ascoltando la sua voce e tenendoti stretto a lui […] affinché tu dimori sul suolo che Geova giurò ai tuoi antenati Abraamo, Isacco e Giacobbe di dar loro”. – Dt 30:20. |
Il “Gesù” di 4:11, “detto Giusto”, era dunque con molta probabilità particolarmente scrupoloso osservante della Legge. Ciò è rafforzato anche dal fatto che egli è incluso con Aristarco e Marco tra coloro che “provengono dai circoncisi” (v. 11) o meglio (stando al testo greco), “gli essenti da[lla] circoncisione” (οἱ ὄντες ἐκ περιτομῆς, òi òntes ek peritomès). Si noti che sebbene siano presentati come persone provenienti “dalla circoncisione”, costoro non crearono difficoltà a Paolo, come invece era accaduto con altri discepoli giudei (Gal 2:11-13). Anzi, Paolo dice di loro: “Collaborano con me per il regno di Dio” e “mi sono stati di conforto”. – V. 11.
Al v. 11 Paolo torna a parlare dei pagani divenuti discepoli: “Epafra, che è dei vostri”. Epafra (1:7) era dei loro (coloro che costituivano la maggioranza dei discepoli della congregazione di Colosse) sia nel senso che proveniva dal paganesimo sia nel senso che era di Colosse. Epafra aveva lavorato per le tre congregazioni che erano vicine tra loro: Colosse, Laodicea e Gerapoli: “Gli rendo testimonianza che si dà molta pena per voi, per quelli di Laodicea e per quelli di Gerapoli” (v. 13). Il “dei vostri” sottolinea a quel che pare il suo lavoro a vantaggio della comunità: “Epafra, il nostro caro compagno di servizio, che è fedele ministro di Cristo per voi” (1:7; cfr. Flm 23). Egli, proprio per questo lavoro di evangelizzazione, è presentato come “servo di Cristo” (v. 12), per meglio dire – usando la parola di Paolo -, come “schiavo [δοῦλος (dùlos)] di Cristo” (TNM). Epafra lavora per Yeshùa come uno schiavo per il padrone, ubbidendo.
Ora Epafra non è accanto ai suoi colossesi, ma accanto a Paolo. Continua però a lavorare per loro con le “sue preghiere” (v. 12) che hanno per scopo la loro perfezione: “Perché stiate saldi, come uomini compiuti, completamente disposti a far la volontà di Dio” (v. 12). Qui, in NR, il pensiero di Paolo non è espresso proprio come lui lo esprime. Qui meglio TNM: “Affinché siate infine compiuti e fermamente convinti in tutta la volontà di Dio”, anche se la parola “compiuti” non rende la pienezza di quella usata da Paolo. L’apostolo dice τέλειοι (tèleioi): “perfetti”. Il senso biblico di τέλειος (tèleios) è quello di essere portato a compimento, finito, cui nulla manca di necessario per la completezza, perfetto, maturo. Questa perfezione è attuabile solo con il compimento perfetto della volontà di Dio. Non ci può essere perfezione se non adempiendo completamente la volontà di Dio. La perfezione intesa in senso biblico non è qualcosa che diventa possibile solo nel mondo avvenire (come pretende qualche religione “cristiana”), ma è una necessità attuale: “Voi dunque siate perfetti”. – Mt 5:48.
Si noti al v. 12 il verbo “lotta”: “Egli lotta sempre per voi nelle sue preghiere”. Paolo dice proprio “lotta”, “combatte” (e non “adoperandosi”, come rende TNM): ἀγωνιζόμενος (agonizòmenos). La preghiera è presentata come una battaglia, una lotta con Dio. Si ricordi il comportamento di Abraamo che lottò con Dio per avere salva la Pentacoli (Gn 18:16-33), riducendo sempre più il numero dei giusti per avere la possibilità di salvare quelle città peccatrici. Chi prega con fede – dice Yeshùa con evidente metafora – può spostare i monti (Mt 17:20). “Non farà Dio giustizia ai suoi eletti che gridano a lui giorno e notte”? (Lc 18:6, TNM). Il fondamento è la fede, parola che in ebraico (אמונה, emunàh) proviene dalla radice di amèn (אמן, “sicuro”, “proprio così”) che significa “essere stabile”. “La fede è certezza di cose che si sperano” (Eb 11:1). “Tutte le cose che voi domanderete pregando, credete che le avete ricevute, e voi le otterrete” (Mr 11:24). “Con fede, senza dubitare”. – Gc 1:6.
Al v. 14 Paolo unisce i saluti di “Luca, il caro medico”, l’autore del Vangelo omonimo (Lc) e di Atti (in cui talora riproduce in prima persona le sue note di viaggio). Luca fu con Paolo durante la sua seconda prigionia. – 2Tm 4:11.
Con Luca, Paolo menziona anche un tale Dema: “Vi salutano Luca, il caro medico, e Dema” (v. 14). Questo Dema ci è ignoto. Sappiamo solo che in un certo momento abbandonò Paolo perché aveva “preferito le cose di questo mondo [“Il presente sistema di cose” (?), TNM]”. – 2Tm 4:10, PdS.
“Salutate i fratelli che sono a Laodicea, Ninfa e la chiesa che è in casa sua” (v. 15). “Ninfa” potrebbe indicare tanto un uomo quanto una donna. Chissà perché, il direttivo dei Testimoni di Geova è certo che sia una donna: “Cristiana che viveva a Laodicea o a Colosse, o nei dintorni, e nella cui casa si tenevano adunanze di congregazione” (Perspicacia nello studio delle Scritture Vol. 2, pag. 393, alla voce “Ninfa”). Il Vocabolario del Nuovo Testamento è più prudente: “Potrebbe essere anche un nome maschile”. Forse la certezza del direttivo dei Testimoni è basata sul presunto significato del nome; infatti l’opera citata, alla voce “Ninfa”, indica: “[sposa]” (Ibidem). E, in effetti, la parola greca νύμφα (nΰmfa) significa “sposa”. Ma c’è un particolare per nulla trascurabile. Nΰmfa (νύμφα), “sposa”, è parola greca del dialetto dorico. Il greco koinè (“comune”), quello della Bibbia, è invece basato sul dialetto attico con influsso di quello ionico. E nella koinè “sposa” si dice νύμφη (nΰmfe) e non nΰmfa. “Chi ha la sposa [νύμφην (nΰmfen)] è lo sposo” (Gv 3:29, TNM); qui la parola “sposa” è al caso accusativo, lo stesso di “Ninfa” in Col, e la differenza è evidente anche per chi non conosca il greco:
Col 4:15 |
Gv 3:29 |
Νύμφαν (Nΰmfan), “Ninfa” |
νύμφην (nΰmfen), “sposa” |
“Ninfa e la chiesa [ἐκκλησίαν (ekklesìan)] che è in casa sua” (v. 15). Si noti come la “chiesa” sia formata dai credenti, non dalle mura in cui essi si radunano. È quindi un errore usare espressioni come “andare in chiesa”. I credenti sono la chiesa, la congregazione. La parola greca ἐκκλησία (ekklesìa) – da cui deriva l’italiano “chiesa” – è un sostantivo femminile composto da ἐκ (ek, “da”) e da una parola derivata dal verbo καλέω (kalèo, “chiamare”), numero Strong 1577, che significa letteralmente “riunione dei chiamati da”. Ha lo stesso significato della parola “sinagoga”: συναγωγή (sünagoghè); composta da σύν (sün), “insieme”, e da ἄγω (àgo), “condurre con sé / andare / partire”). Tutte e due le parole indicano un’assemblea, una riunione di persone congregate.
Si noti anche, al v. 16, lo scambio delle lettere tra congregazione e congregazione: “Quando questa lettera sarà stata letta da voi, fate che sia letta anche nella chiesa dei Laodicesi, e leggete anche voi quella che vi sarà mandata da Laodicea”. La dottrina degli apostoli, predicata e contenuta nei loro scritti (le Sacre Scritture Greche, parte greca della Bibbia, erroneamente detta “Nuovo Testamento”), era la base della fede. “Siete stati edificati sul fondamento degli apostoli e dei profeti”. – Ef 2:20.
Che dire della lettera ai laodicesi che viene qui menzionata? A quanto pare, essa sarebbe andata perduta. Ne siamo sicuri? Non proprio. Qualcuno la identifica con la lettera nota oggi come Lettera agli efesini. Come abbiamo già osservato, Ef 1:1 ha una apertura incerta: “Paolo inviato di Cristo Gesù per volontà di Dio ai santi, agli essenti e ai fedeli in Yeshùa unto”. – Traduzione dal greco.
- Manoscritti אc, A, Bc,D, Vg, Syh,p: ἐν Ἐφέσῳ (en Efèso), “in Efeso”.
- Manoscritti P46, א* e B*: omettono “in Efeso”.
Si vedano anche, in questa stessa categoria Scritture Greche (sezione Esegesi biblica), gli studi sulla Lettera agli efesini.
Al verso 16: “Quando […] sarà stata letta […] fate che sia letta […] e leggete […]”. Si tratta della lettura pubblica. Leggere le lettere apostoliche era leggerle in pubblico nelle riunioni. Spesso nel culto si leggevano e rileggevano gli scritti degli apostoli. Questi scritti erano custoditi con cura. Si andarono formando così presso le varie congregazioni diverse collezioni di sacri scritti che poi, riuniti insieme, formarono il canone delle Scritture Greche.
“Dite ad Archippo: ‘Bada al servizio che hai ricevuto nel Signore, per compierlo bene’” (v. 17). Chi fosse questo Archippo ci è ignoto. Aveva ricevuto “il servizio” (τὴν διακονίαν, ten diakonìan) “nel Signore”, vale a dire mediante lo spirito santo (2Cor 3:17). Questo “servizio” (διακονίαν, diakonìan), che egli doveva compiere “bene”, era forse il “presbiterato” in assenza di Epafra. Questo Archippo potrebbe anche essere il figlio di Filemone e di Affia (Flm 2). Si osservi come il “ministero” (diakonìa) non sia un onore ma un onere (“bada al servizio”, v. 17): un servizio a favore dei fratelli e delle sorelle. Molto diverso dalle pomposità di certe “eccellenze” vescovili tutte bardate che hanno il posto d’onore, come fossero alti dignitari, in cerimonie ufficiali. Al tempo apostolico la diakonìa era una dedizione, una consacrazione, un incarico da svolgere. Paolo dice di farlo “bene”. Come tutti i lavori ben fatti, anche il servizio nella congregazione va svolto con amorevolezza e precisione. Quel servizio era un incarico “ricevuto nel Signore” (v. 17): ἣν παρέλαβες (en parèlabes), “che ricevesti”; non era una nomina che aveva “accettato” (TNM), ma ricevuto. Non sappiamo esattamente quale fosse il suo incarico specifico: se diacono, vescovo o altro dono particolare.
Il saluto. “Il saluto è di mia propria mano, di me, Paolo” (v. 18). Anche qui, come spesso altrove, Paolo scrive direttamente il suo saluto. È la sua autenticazione. “Il saluto è di mia propria mano: di me, Paolo” (1Cor 16:21); “Il saluto è di mia propria mano, di me, Paolo; questo serve di segno in ogni mia lettera; è così che scrivo” (2Ts 3:17). – Flm 19.
Nella lettera ai galati si dice che l’apostolo scrisse con “grossi caratteri” (Gal 6:11), il che denota un disturbo visivo (glaucoma; cfr Gal 4:15) con vizio di presbiopia.
“Ricordatevi delle mie catene” (v. 18). Con quel “ricordatevi” Paolo dice tutto senza parlare. Tutto il toccante significato contenuto in quel μνημονεύετε (mnemonèuete), “ricordatevi” si perde nel freddo “continuate a rammentare” di TNM. Dire a una persona che amiamo e che ci ama: “Ricòrdati di me”, tocca il cuore. Partecipiamo alla commozione di Paolo immaginando la sua mano che scrive: “Ricordatevi”. E ne siamo toccati leggendolo insieme a quei colossesi che dovettero provare più commozione ancora. “Ricordatevi delle mie catene”. Il ricordo di quelle catene deve indurli a pregare per lui perché sia liberato (4:3), deve spingerli a sopportare e, conforme al suo esempio, a non dimenticare il proprio dovere di discepoli di Yeshùa. – V. 17.
“La grazia sia con voi” (v. 18). “La grazia” (ἡ χάρις, e chàris) è un complesso di nozioni che compendiano tutta la dottrina e tutta la teologia e tutta la spiritualità della fede in Dio tramite Yeshùa, tutta la concezione della vita presente e futura dei discepoli di Yeshùa. La chàris indica l’amore di Dio misericordioso che si accosta a noi, si avvicina a noi, ci salva in Yeshùa. Yeshùa è la grazia per eccellenza: la fede che ci unisce in lui è grazia di Dio. Grazia sono anche tutte quelle benedizioni che il credente ha ricevendo il dono dello spirito santo. Grazia è la vita eterna che noi attendiamo con speranza: “Siamo stati salvati in speranza. Or la speranza di ciò che si vede, non è speranza; difatti, quello che uno vede, perché lo spererebbe ancora? Ma se speriamo ciò che non vediamo, l’aspettiamo con pazienza”. – Rm 8:24,25.
Questa “grazia” ci rende graziosi, amabili di fronte a Dio che non vede più in noi la nostra caparbietà e la nostra disubbidienza ma l’amore ubbidiente e sommo di Yeshùa (di cui ci rivestiamo con il battesimo: “Tutti voi che foste battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo” – Gal 3:27, TNM).
Si tratta però sempre di grazia, di qualcosa di gratuito (è da “grazia” che deriva la parola “gratis”), di cui non abbiamo alcun diritto, ma che proviene esclusivamente dalla bontà di quel Dio uno e unico che è per definizione “amore” e “misericordia”: “Vedete quale amore ci ha manifestato il Padre, dandoci di essere chiamati figli di Dio!”. “Dio è amore. In questo si è manifestato per noi l’amore di Dio: che Dio ha mandato il suo Figlio unigenito nel mondo, affinché, per mezzo di lui, vivessimo. In questo è l’amore: non che noi abbiamo amato Dio, ma che egli ha amato noi, e ha mandato suo Figlio per essere il sacrificio propiziatorio per i nostri peccati”. – 1Gv 3:1;4:8-10.