Di Efeso, perla dell’Asia, oggi non rimane che il modesto villaggio di Ayasoluk, nome che ricorda il soggiorno dell’apostolo Giovanni, detto appunto àghios theològos (“santo teologo”), nome del sito dell’acropoli della città antica. Di Paolo, che vi stette tre anni, v’è solo una leggendaria memoria nella cosiddetta “prigione di san Paolo”, probabile resto di una fortificazione sul Bülbül-Dagi, e un altro rudere più in basso presso l’antico porto lungo le mura ellenistiche di Efeso. – Cfr. Plinio, Hist. Nat. 5,29.
La città, posta presso la foce del Caistro (l’attuale fiume Küshük Menderes), che ora dista circa 8 km dal mare, al tempo di Paolo aveva un porto e veniva frequentemente sommersa dalle onde. La parte antica si sviluppò ai piedi di Ayaloluk. Qui gli scavi hanno messo in luce i resti dell’Artemisio, famoso tempio dedicato alla Grande Madre, divinità orientale della fecondità (simboleggiata dalle molteplici mammelle), che i greci identificavano con Artemide e i romani con Diana.
Il tempio – dopo la distruzione del 356 a. E. V., causata da un mitomane desideroso di notorietà che vi appiccò il fuoco – fu ricostruito all’epoca di Alessandro su una piattaforma molto sopraelevata rispetto al circostante terreno acquitrinoso.
La popolazione efesina, di circa un quarto di milione, viveva del porto e del turismo. Infatti, centinaia di migliaia pellegrini accorrevano da tutta l’Asia Minore al tempio di Artemide, specialmente durante le festività in onore della dea tenute nel mese chiamato artemisione (marzo-aprile). Un momento notevole della celebrazione era la processione religiosa in cui la statua di Artemide veniva portata in trionfo per le vie della città nel giubilo generale. Per questi pellegrini si fabbricavano minuscole riproduzioni auree e argentee del tempio e della dea. Possiamo ben immaginare la scena descritta in At 19:24-28:
“In quel periodo vi fu un gran tumulto a proposito della nuova Via. Perché un tale, di nome Demetrio, orefice, che faceva tempietti di Diana in argento, procurava non poco guadagno agli artigiani. Riuniti questi e gli altri che esercitavano il medesimo mestiere, disse: ‘Uomini, voi sapete che da questo lavoro proviene la nostra prosperità; e voi vedete e udite che questo Paolo ha persuaso e sviato molta gente non solo a Efeso, ma in quasi tutta l’Asia, dicendo che quelli costruiti con le mani, non sono dèi. Non solo vi è pericolo che questo ramo della nostra arte cada in discredito, ma che anche il tempio della grande dea Diana non conti più, e che sia perfino privata della sua maestà colei che tutta l’Asia e il mondo adorano’. Essi, udite queste cose, accesi di sdegno, si misero a gridare: ‘Grande è la Diana degli Efesini!’”.
Famosi erano pure gli efèsia grommata o amuleti con misteriose scritte magiche che si ritenevano efficaci contro il malocchio (cfr. At 19:18,19). In mezzo alle viuzze in cui si annidava la popolazione, primeggiava la celebre e grandiosa Via Sacra che dalla porta di Magnesia conduceva all’Artemisio. Era anche notevole il teatro dell’epoca romana, capace di 25.000 persone, che era già esistente al tempo di Paolo ed è tuttora visitabile nella magnificenza che ne resta. Nel 133 a. E. V. Attalo II, ultimo re di Pergamo (da qui il nome “pergamene”), lasciò per testamento la città ai romani.
L’apostolo Paolo durante il suo terzo viaggio missionario (53-58 E. V.) si fermò a Efeso circa tre anni, formandovi una congregazione forte. Come facciamo a sapere che la congregazione efesina era ben strutturata? Vari fatti lo documentano. Paolo lasciò ai “vescovi” (che erano poi i sorveglianti) di quella congregazione il suo testamento spirituale:
“Da Mileto mandò a Efeso a chiamare gli anziani della chiesa. Quando giunsero da lui, disse loro: ‘Voi sapete in quale maniera, dal primo giorno che giunsi in Asia, mi sono sempre comportato con voi, servendo il Signore con ogni umiltà, e con lacrime, tra le prove venutemi dalle insidie dei Giudei; e come non vi ho nascosto nessuna delle cose che vi erano utili, e ve le ho annunziate e insegnate in pubblico e nelle vostre case, e ho avvertito solennemente Giudei e Greci di ravvedersi davanti a Dio e di credere nel Signore nostro Gesù Cristo. Ed ecco che ora, legato dallo Spirito, vado a Gerusalemme, senza sapere le cose che là mi accadranno. So soltanto che lo Spirito Santo in ogni città mi attesta che mi attendono catene e tribolazioni. Ma non faccio nessun conto della mia vita, come se mi fosse preziosa, pur di condurre a termine [con gioia] la mia corsa e il servizio affidatomi dal Signore Gesù, cioè di testimoniare del vangelo della grazia di Dio. E ora, ecco, io so che voi tutti fra i quali sono passato predicando il regno, non vedrete più la mia faccia. Perciò io dichiaro quest’oggi di essere puro del sangue di tutti; perché non mi sono tirato indietro dall’annunziarvi tutto il consiglio di Dio. Badate a voi stessi e a tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha costituiti vescovi, per pascere la chiesa di Dio, che egli ha acquistata con il proprio sangue. Io so che dopo la mia partenza si introdurranno fra di voi lupi rapaci, i quali non risparmieranno il gregge; e anche tra voi stessi sorgeranno uomini che insegneranno cose perverse per trascinarsi dietro i discepoli. Perciò vegliate, ricordandovi che per tre anni, notte e giorno, non ho cessato di ammonire ciascuno con lacrime. E ora, vi affido a Dio e alla Parola della sua grazia, la quale può edificarvi e darvi l’eredità di tutti i santificati. Non ho desiderato né l’argento, né l’oro, né i vestiti di nessuno. Voi stessi sapete che queste mani hanno provveduto ai bisogni miei e di coloro che erano con me. In ogni cosa vi ho mostrato che bisogna venire in aiuto ai deboli lavorando così, e ricordarsi delle parole del Signore Gesù, il quale disse egli stesso: Vi è più gioia nel dare che nel ricevere’. Quand’ebbe dette queste cose, si pose in ginocchio e pregò con tutti loro. Tutti scoppiarono in un gran pianto; e si gettarono al collo di Paolo, e lo baciarono, dolenti soprattutto perché aveva detto loro che non avrebbero più rivisto la sua faccia; e l’accompagnarono alla nave”. – At 20:17-38.
Giovanni indirizzò alla congregazione di Efeso la prima lettera contenuta nella sua Rivelazione (Apocalisse), lamentando in essa l’affievolimento del suo primo fervore:
“All’angelo della chiesa di Efeso scrivi: Queste cose dice colui che tiene le sette stelle nella sua destra e cammina in mezzo ai sette candelabri d’oro: Io conosco le tue opere, la tua fatica, la tua costanza; so che non puoi sopportare i malvagi e hai messo alla prova quelli che si chiamano apostoli ma non lo sono e che li hai trovati bugiardi. So che hai costanza, hai sopportato molte cose per amor del mio nome e non ti sei stancato. Ma ho questo contro di te: che hai abbandonato il tuo primo amore. Ricorda dunque da dove sei caduto, ravvediti, e compi le opere di prima; altrimenti verrò presto da te e rimoverò il tuo candelabro dal suo posto, se non ti ravvedi. Tuttavia hai questo, che detesti le opere dei Nicolaiti, che anch’io detesto”. – Riv 2:1-6.
Ignazio di Antiochia, scrivendo alla congregazione di Efeso verso il 107, la chiamò “congregazione giustamente beata che è in Efeso d’Asia, colma d’ogni benedizione, predestinata dall’eternità a gloria imperitura”.
Secondo la tradizione, Giovanni sarebbe morto a Efeso e il suo sepolcro starebbe su una collina di Ayasoluk. Sempre secondo la tradizione, a Efeso sarebbe stata sepolta anche Miryàm, la madre di Yeshùa. Comunque, negli scavi archeologici sono state rinvenute varie catacombe con lapidi “cristiane”, tra cui spicca l’iscrizione sull’antica base di un idolo: “Demea ha rimosso l’immagine ingannevole del demone Artemide e al suo posto ha messo il segno che scaccia gli idoli, alla gloria di Dio e della sua croce, il simbolo vittorioso ed eterno di Cristo”. Le parole di questa iscrizione fanno pensare a un’epoca in cui la congregazione doveva ormai aver già apostatato, dato che vi si parla di “Dio e della sua croce”.