La seconda strofa (1:7-12).
Si celebra qui il mistero dell’amore del Padre e del Figlio. Dopo la prima strofa in cui Paolo, nella sua preghiera, ha parlato del Padre e dei suoi doni, l’apostolo si concentra ora sul Figlio che visibilmente e umanamente ci mostra l’amore di Dio. Anche nella preghiera ebraica (che ha ispirato, a quel che sembra, quella di Paolo), dopo Dio si esalta l’elezione di Israele:
“Per merito dei nostri padri che hanno sperato in te, che tu hai istruito con i precetti di vita, facci grazia e istruiscici. Illumina i nostri cuori con la tua Legge, fissa i nostri cuori nei tuoi comandamenti”. – Tratto dal סדור (siddùr), “Libro di Preghiere”, Mamash Edizioni Ebraiche.
Prima che venisse Yeshùa, l’amore di Dio si rendeva concreto (anche secondo i qumranici) in una serie di precetti (מִצְוֹת, mitzvòt). Con la venuta di Yeshùa tutto si rende concreto in una persona: il Messia. Non più precetti esteriori vissuti in modo legalistico, ma l’amore con cui nella fede s’ubbidisce alla Legge scritta ora sui cuori e non più sulla pietra: “Vi darò un cuore nuovo e metterò dentro di voi uno spirito nuovo; toglierò dal vostro corpo il cuore di pietra, e vi darò un cuore di carne. Metterò dentro di voi il mio Spirito e farò in modo che camminerete secondo le mie leggi, e osserverete e metterete in pratica le mie prescrizioni”. – Ez 36:26,27.
Dio, anche prima della venuta di Yeshùa, andava cercando le pecore smarrite:
“Perché dice il Signore Dio: Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura” (v. 11). “Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare. Oracolo del Signore Dio. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita; fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura* della grassa e della forte; le pascerò con giustizia”. – Vv. 15,16; Ez 34, CEI.
* “Avrò cura della grassa e della forte”. Questa è la traduzione corretta. TNM traduce invece: “Ma annienterò la grassa e la forte”, traduzione che appare assurda. Il contesto, infatti, iniziando dal v. 1 del cap. 34, non fa altro che parlare della cura che Dio ha per le sue pecore. Sarebbe del tutto sorprendente che a un certo punto dicesse: “Annienterò la grassa e la forte”, come pretende TNM. Come mai questa strana traduzione? L’errore sta in una lettura sbagliata del testo ebraico. Il verbo giustamente reso da CEI con “avrò cura” è nell’ebraico אשמיר (eshmìr), futuro del verbo שמר (shamàr) che significa “custodire” o “aver cura”. Si noti ora la lettera finale di אשמיר (eshmìr): ר (= r) e la si paradoni con un’altra lettera ebraica: la ד (= d). Si noti quanto si assomigliano:
ר ד
d r
In pratica sono diverse solo per un apice, una “particella di lettera”, una di quelle che Yeshùa disse non sarebbero passate “in alcun modo dalla legge” (Mt 5:18, TNM). Se si legge il verbo eshmìr (אשמיר), “avrò cura”, leggendo la lettera finale come fosse una ד (d) anziché una ר (r), si legge erroneamente eshmìd (אשמיד) che significa “annienterò”.
Ecco spiegata la cantonata presa da TNM. Da questo errore è dovuta seguire anche la modifica della frase in italiano. Infatti, mentre la frase lineare dice: “Avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia”, TNM è costretta a spezzare la frase e a crearne due: “Annienterò la grassa e la forte. Pascerò quella con giudizio”. Ma così, oltre al precedente problema di andare contro il contesto, si suscita un nuovo problema: “Pascerò quella”, ma “quella” quale? Il bello è che nella nota in calce TNM specifica: “’Pascerò quella’: lett. ‘La pascerò’, M; LXXSyVg, ‘Le pascerò’”. Infatti, la frase è una sola: “Avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia”. Purtroppo non è finita. Dovendo – per errata traduzione – riferire “quella” alla precedente pecora (“la grassa e la forte”), che Dio dovrebbe ‘annientare’ (sic), TNM non può dire – per non contraddirsi – che Dio la ‘pascerà con giustizia’ (CEI), così dice: “Pascerò quella con giudizio”, traducendo male anche l’ebraico בְמִשְׁפָּט (bemishpàt) che significa “con giustizia” (e non “con giudizio”).
Ora è Yeshùa il buon pastore. Ci redime morendo, abbassandosi, soffrendo tutte le amarezze (le ingratitudini degli amici, la cattiveria, la malignità, l’odio). E lo fa sino a occupare il posto di coloro che Dio malediceva per i loro peccati: “Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, essendo divenuto maledizione per noi” (Gal 3:13). Proprio per quest’umiliazione, fino ad accettare il bacio dell’amico che lo tradiva, ha potuto mostrare una particolare qualità dell’amore di Dio, quell’amore concretizzatosi in lui. Non fu per obbligazione, ma per la libera volontà con cui accettò di soffrire per amore nostro che egli rese concreto l’amore divino personalizzato in lui.
L’antica alleanza era stata sancita con il sangue dell’agnello (Es 24:5), ma la nuova alleanza fu sancita nell’amore di Yeshùa che traspirava da ogni goccia di quel sangue e che ricongiunge così le persone in un copro solo, sotto un capo solo.
La redenzione è opera di Yeshùa il consacrato soltanto, senza altri collaboratori di alcun genere, siano essi cosiddetti “santi canonizzati” o viventi sacerdoti cattolici (suoi pretesi rappresentanti nell’applicare la sua redenzione agli uomini). La redenzione è opera di Yeshùa soltanto. Non esiste nessuna “co-redenzione” per merito di quell’ebrea ubbidiente e devota al Dio di Israele, il cui nome è stato abbinato – a sua insaputa – al titolo blasfemo di “madre di Dio”.
Questa “redenzione mediante il suo sangue” (1:7) Dio l’“ha riversata abbondantemente su di noi dandoci ogni sorta di sapienza e d’intelligenza” (1:8). Si noti come nella grazia divina siano incluse la sapienza e l’intelligenza. Non si tratta di due qualità teoriche, ma del modo in cui il credente deve comportarsi. Unito a Yeshùa, istruito da Yeshùa, il fedele sa come deve comportarsi seguendo gli esempi di Yeshùa: “A questo siete stati chiamati, poiché anche Cristo ha sofferto per voi, lasciandovi un esempio, perché seguiate le sue orme” (1Pt 1:21). Il credente non ha bisogno di essere istruito da altri con leggi umane che lo privino della sua libertà. Questa “sapienza” non è quella del mondo. Questa “intelligenza” non è sua, non è il “buon senso” (TNM) che ciascuno può avere. Paolo usa la parola φρόνησις (frònesis) che in tutte le Scritture Greche si trova solo qui e in Lc 1:17, dove si dice che il battezzatore avrebbe preparato la via a Yeshùa volgendo i disubbidienti alla “frònesis [φρόνησις] dei giusti”, quella che qui TNM traduce “saggezza dei giusti”. Non si tratta quindi si semplice “buon senso”, ma di “comprensione, conoscenza e santo amore della volontà di Dio”. – Vocabolario del Nuovo Testamento; il corsivo è aggiunto.
“Il mistero della sua volontà” (1:9). Il concetto biblico di mistero è molto diverso da quello cattolico. Nella teologia cattolica il mistero è una verità inesprimibile che l’uomo accetta per fede (si pensi al mistero della Trinità, che per i cattolici è una verità incomprensibile che va accettata per fede). Nella Bibbia, invece, il mistero implica una conoscenza nascosta (un fatto che è non conoscibile dall’uomo) ma che, dopo che il mistero è stato rivelato, diviene nota senza rimanere misteriosa. Nel nostro passo il mistero riguarda il fatto che Dio intende riunire ad unità tutti gli esseri sotto un capo unico: Yeshùa il consacrato. “Esso [il mistero] consiste nel raccogliere sotto un solo capo, in Cristo, tutte le cose”. – 1:10.
È in Yeshùa che cadono le distinzioni sociali (ricchi-poveri), nazionali (progrediti-barbari) e perfino personali (uomo-donna); per divenire tutti uno in Yeshùa. Ogni credente è, infatti, rivestito di Yeshùa. “Voi tutti che siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è qui né Giudeo né Greco; non c’è né schiavo né libero; non c’è né maschio né femmina; perché voi tutti siete uno in Cristo Gesù”. – Gal 3:27,28.
Questa volontà divina (il mistero era, infatti, “il mistero della sua volontà”, 1:9) non era prima conosciuta da alcuno, neanche dagli ebrei, ma ora è rivelata a Paolo. “Per rivelazione mi è stato fatto conoscere il mistero […]. Nelle altre epoche non fu concesso ai figli degli uomini di conoscere questo mistero […] vale a dire che gli stranieri sono eredi con noi, membra con noi di un medesimo corpo” (Ef 3:3-6). Yeshùa aveva accennato qualcosa, ma certo nessuno allora poteva capire: “Fate miei discepoli tutti i popoli” (Mt 28:19). E chi poteva capire, allora, le parole di Yeshùa: “Ho anche altre pecore, che non sono di quest’ovile; anche quelle devo raccogliere” (Gv 10:16)? I Testimoni di Geova non le comprendono neppure oggi, perché essi le applicano a due classi distinte di persone (quelli destinati al cielo e quelli destinati alla terra). E ciò nonostante le precise parole che Yeshùa disse: “Esse [le altre pecore] ascolteranno la mia voce, e vi sarà un solo gregge, un solo pastore” (Ibidem). Chi conosce la Bibbia sa che “quest’ovile”, di cui parlava Yeshùa, era Israele, delle cui pecore Dio stesso dice: “Io stesso pascerò le mie pecore” (Ez 34:15). “Voi, pecore mie, pecore del mio pascolo, siete uomini. Io sono il vostro Dio, dice il Signore” (Ez 34:31). Gli ebrei conoscevano la promessa di Dio: “Certo io raccoglierò il resto d’Israele; io li farò venire assieme come pecore in un ovile; come un gregge” (Mic 2:12). Nessuno però conosceva il mistero della volontà di Dio: condurre in quell’ovile “altre pecore” che non ne facevano parte, per divenire insieme a quelle prime pecore “un solo gregge”.
Yeshùa è dunque al centro della creazione e della storia cosmica. È questa l’economia, la storia della salvezza che ci viene presentata in Ef.
Cosa sono “tutte le cose” (1:10) che devono essere raccolte sotto Yeshùa? Lo spiega 3:9 quando parla del “Creatore di tutte le cose”, facendoci comprendere che “tutte le cose” sono tutti gli esseri creati.