Regole della nuova vita (4:25-5:5).

 

“Bandita la menzogna, ognuno dica la verità”

4:25

“Il sole non tramonti sopra la vostra ira”

4:26

“Non rubi più, ma si affatichi piuttosto a lavorare”

4:28

“Nessuna cattiva parola esca dalla vostra bocca”

4:29

“Non rattristate lo Spirito Santo di Dio”

4:30

“Via da voi ogni amarezza, ogni cruccio e ira e clamore e parola offensiva con ogni sorta di cattiveria! Siate invece benevoli e misericordiosi gli uni verso gli altri, perdonandovi a vicenda”

4:31

“Siate dunque imitatori di Dio”

5:1

4:32

“Camminate nell’amore”

5:2

“Né fornicazione, né impurità, né avarizia, sia neppure nominata tra di voi;

né oscenità, né parole sciocche o volgari”

5:3

“Abbondi il ringraziamento”

5:4

5:4

   I princìpi precedenti sono applicati praticamente alla nuova vita del credente con regole molto appropriare.

   Va bandita anzitutto la menzogna (4:25), che fu proibita da Yeshùa: “Il vostro parlare sia: ‘Sì, sì; no, no’”, e in seguito anche da Giacomo: “Il vostro sì, sia sì, e il vostro no” (Gc 5:12). Paolo fa una citazione biblica, tratta da Zc 8:16: “Queste sono le cose che dovete fare: dite la verità ciascuno al suo prossimo”. Paolo dà anche il motivo per essere veritieri: “Perché siamo membra gli uni degli altri” (4:25). In un corpo tutte le membra collaborano e non s’imbrogliano le une le altre. Dovremmo ricordarci che questo principio non sottilizza: non sono permesse le reticenze mentali, le bugie pietose, le astuzie che giocano con le parole. Il meglio è sempre dire la verità, sia pure con tatto e con amore. Le donne in particolare hanno un modo tutto loro di mentire (anzi, di dire la verità, come loro direbbero), dicendo mezze verità e sottacendone altre. Attenzione però a non confondere la menzogna con il riserbo. Quando Paolo dice: “Bandita la menzogna, ognuno dica la verità”, dire la verità è qui in contrapposizione alla menzogna: “Basta con le menzogne!” (PdS). “Ognuno dica la verità” non va quindi isolato dal suo contesto e preso in modo assoluto. Di fonte a domande indiscrete, non siamo obbligati a dire la verità; certo non si deve mentire, ma possiamo anche non rispondere. Ci sono cose che altri non hanno diritto di sapere.

   A prima vista sembra strano quell’“adiratevi”: “Adiratevi e non peccate” (4:26). Certo Paolo non sta incoraggiando le persone ad adirarsi. Non dice affatto, come in TNM: “Siate adirati”, e per aggiunta con una nota in calce che spiega: “Lett.[eralmente] ‘Siate resi adirati’”. Pare un comando! E poi, essere resi adirati da chi? Il greco ὀργίζεσθε (orghìzesthe) è sì un imperativo, ma permissivo. Come dire: Arrabbiatevi pure. Inoltre, non si tratta di una forma passiva (come tradotto da TNM: essere resi adirati), ma media (in italiano assomiglia alla forma riflessiva: adirarsi). Infine, il verbo ὀργίζομαι (orghìzomai), numero Strong 3710, significa: “Essere adirato, avere ira” (Vocabolario del Nuovo Testamento), e non ‘essere reso adirato’.

   Ma cosa vuol dire Paolo? Non deve il credente abolire l’ira? Certamente. Non c’è bisogno di imbarcarsi in ragionamenti tutti occidentali per arrivare alla conclusione cui arriva Svegliatevi! dell’8 aprile 1994, a pag. 18: “Perché la Bibbia ammette che si provi ira? Perché non sempre l’ira è sbagliata”. Non è necessario tirare in ballo l’ira di Dio che s’indigna per le ingiustizie, come fa la suddetta rivista. Il contesto qui è umano, e la Bibbia dice chiaramente: “L’ira dell’uomo non opera la giustizia di Dio” (Gc 1:20, TNM). Qui l’imperativo (permissivo) è un modo semitico di esprimersi, è un imperativo d’ipotesi. Bene traduce PdS: “Se vi arrabbiate, attenti a non peccare”. Usando l’imperativo alla maniera semitica, Paolo dice in pratica: Se vi capita, per ipotesi, di adirarvi, pazienza!, tuttavia sta a voi soffocare questa improvvisa ira (di cui spesso non siamo coscientemente responsabili) in modo che non duri molto. Cessi al massimo con il tramonto del sole (alla fine del giorno ebraico), altrimenti non avrete più scuse e sarete preda del diavolo. “Tremate e non peccate; sui vostri letti ragionate in cuor vostro [nella vostra mente] e tacete” (Sl 4:4). – Cfr anche 1Pt 3:8; Gc 1:19,20;4:7.

   “Chi rubava non rubi più” (4:28). Il credente evita perfino i mezzucci per vivere a spese altrui: contrarre prestiti che sa di non poter restituire, piatire (il contendere in giudizio), sottrarre, speculare. Il credente si affatica con il proprio lavoro, e lo fa in modo da bastare non solo a se stesso ma da aiutare anche gli altri che sono nel bisogno e non possono lavorare: “Si affatichi piuttosto a lavorare onestamente con le proprie mani, affinché abbia qualcosa da dare a colui che è nel bisogno” (4:28). “In ogni cosa vi ho mostrato che bisogna venire in aiuto ai deboli lavorando così, e ricordarsi delle parole del Signore Gesù, il quale disse egli stesso: ‘Vi è più gioia nel dare che nel ricevere’”. – At 20:35.

   In passato il lavoro non era ben visto, come invece è oggi. Presso i romani solo gli schiavi lavoravano. Anche presso certi discepoli di Tessalonica non si voleva lavorare, perché si pensava che il ritorno di Yeshùa fosse imminente: “Quando eravamo con voi, vi comandavamo questo: che se qualcuno non vuole lavorare, neppure deve mangiare. Difatti sentiamo che alcuni tra di voi si comportano disordinatamente, non lavorando affatto, ma affaccendandosi in cose futili. Ordiniamo a quei tali e li esortiamo, nel Signore Gesù Cristo, a mangiare il proprio pane, lavorando tranquillamente”. – 2Ts 3:10-12.

   Paolo lavorava, così come solevano fare anche i rabbini; secondo la loro tradizione ognuno doveva avere un proprio mestiere.

   “Nessuna cattiva parola esca dalla vostra bocca; ma se ne avete qualcuna buona, che edifichi secondo il bisogno, ditela affinché conferisca grazia a chi l’ascolta” (4:29). Il discepolo di Yeshùa non solo cerca di evitare le parole oscene, ma si sforza anche di edificare sempre con il proprio modo di parlare. Egli può confortare, sostenere, insegnare, condurre a Dio e a Yeshùa.  In tal modo egli conferirà grazia, renderà più “graziosi” coloro che lo sentono parlare e che saranno indotti a evitare il linguaggio osceno o – meglio ancora – saranno condotti dal suo buon esempio verso la grazia divina che è pronta ad accogliere anche loro. Oggi è una vera sfida mantenere un linguaggio pulito. Persone in vista, dirigenti e professionisti usano ormai in modo divenuto normale parole che hanno più a che fare con l’apparato urogenitale che con l’eleganza. Cinema e televisione non fanno eccezione. E pensare che solo fino a mezzo secolo fa c’erano in televisione parole tabù che non potevano essere dette (non si pensi alle volgarità di oggi: una delle parole tabù era “baccalà”, che doveva essere sostituita da “merluzzo”).

   Il linguaggio dei credenti deve condurre gli altri a Dio.

   La nostra condotta può rattristare lo spirito santo: “Non rattristate lo Spirito Santo di Dio” (4:30). “Non spegnete lo Spirito” (1Ts 5:19). “Lo Spirito Santo di Dio con il quale siete stati suggellati per il giorno della redenzione” (4:30). Il suggello dello spirito divino ci è stato dato in vista della futura redenzione completa cui parteciperà tutto il nostro essere, corpo compreso: “Gemiamo dentro di noi, aspettando l’adozione, la redenzione del nostro corpo” (Rm 8:23). Questo fatto è negato dal corpo dirigente dei Testimoni di Geova, che nella loro Bibbia traducono il passo così: “La liberazione dal nostro corpo” (TNM). Eppure, non credono in un’anima che deve essere liberata dal corpo. Il fatto è che negano la redenzione del corpo fino al punto di correggere il testo biblico, dando origine a un’affermazione non scritturale.

τὴν ἀπολύτρωσιν τοῦ σώματος ἡμῶν

ten apolΰtrosin tu sòmatos emòn

la redenzione del corpo di noi

   La parola ἀπολύτρωσις (apolΰtrosis), numero Strong 629, è un sostantivo femminile che può anche significare “liberazione”: “Un rilascio effettuato dal pagamento di un riscatto; redenzione, liberazione; liberazione procurata dal pagamento di un riscatto” (Vocabolario del Nuovo Testamento). La manomissione non sta nella scelta della parola, ma nel rendere τοῦ (tu) – che significa indiscutibilmente “del” – con “dal”. Paolo parla di “liberazione del corpo”, non dal corpo. Come spesso accade in questi casi, TNM si sconfessa da sola. Infatti, in Ef 1:14 traduce: “Allo scopo di liberare mediante riscatto il possedimento [di Dio], alla sua gloriosa lode”. Il giro di parole “liberare mediante riscatto” è nel greco una sola parola: quella stessa ἀπολύτρωσις (apolΰtrosis) di Rm 8:23. E questa parola è seguita dall’articolo genitivo τῆς (tes), “della”, che è il corrispondente femminile di τοῦ (tu) ovvero “del”. Ebbene, la traduzione letterale è: “Liberazione del possedimento [che il greco è femminile]” ἀπολύτρωσιν τῆς περιποιήσεως (apolΰtrosis tes peripoièseos). Applicando lo stesso metodo adottato nel passo di Rm, TNM dovrebbe tradurre: ‘Liberazione dal possedimento’. In cosa consiste allora “la redenzione del corpo”? “Bisogna che questo corruttibile rivesta incorruttibilità e che questo mortale rivesta immortalità” (1Cor 15:53). “Tutti saremo trasformati” (1Cor 15:51): “trasformati” nel corpo, non ‘liberati dal corpo’: da corpo fisico a corpo spirituale.

“Così è pure della risurrezione dei morti. Il corpo è seminato corruttibile e risuscita incorruttibile; è seminato ignobile e risuscita glorioso; è seminato debole e risuscita potente; è seminato corpo naturale e risuscita corpo spirituale. Se c’è un corpo naturale, c’è anche un corpo spirituale”. – 1Cor 15:42-44.

   La redenzione, dice Paolo, si vive solo in speranza: “La speranza di ciò che si vede, non è speranza; difatti, quello che uno vede, perché lo spererebbe ancora? Ma se speriamo ciò che non vediamo, l’aspettiamo con pazienza” (Rm 8:24,25). La redenzione si attuerà solo con il ritorno di Yeshùa. In questa lettera manca però ogni accenno all’attesa del Regno di Dio come a un evento imminente. Diversa è invece l’accentuazione di questa imminenza nelle lettere ai tessalonicesi.

   Abbiamo poi le esortazioni pratiche conclusive che assommano tutto ciò che il credente deve evitare e ciò che deve invece fare: “Via da voi ogni amarezza, ogni cruccio e ira e clamore e parola offensiva con ogni sorta di cattiveria! Siate invece benevoli e misericordiosi gli uni verso gli altri, perdonandovi a vicenda come anche Dio vi ha perdonati in Cristo” (4:31,32). Sul comportamento remissivo e capace di perdonare, deve giocare il fatto che anche il credente è stato perdonato: “Come anche Dio vi ha perdonati in Cristo” (v. 32). “Rivestitevi, dunque, come eletti di Dio, santi e amati, di sentimenti di misericordia, di benevolenza, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza. Sopportatevi gli uni gli altri e perdonatevi a vicenda, se uno ha di che dolersi di un altro. Come il Signore vi ha perdonati, così fate anche voi”. –  Col 3:12,13.

   Dio è la meta verso cui il credente deve tendere, pur nella sua limitatezza. La meta è così elevata che non potrà mai essere raggiunta. La tensione deve quindi durare l’intera vita. Mai il credente può fermarsi credendo di aver raggiunto la vetta. Anche se Paolo raccomanda ai suoi lettori di imitare lui, di fatto, propone come esempio Yeshùa: “Siate miei imitatori, come anch’io lo sono di Cristo” (1Cor 11:1), e – come esempio finale e più alto – Dio: “Siate dunque imitatori di Dio, perché siete figli da lui amati”. – Ef 5:1.

   L’imitazione di Dio è possibile solo se il credente si sforza di riprodurre nei suoi rapporti con il prossimo l’amore di Dio vissuto da Yeshùa fino alla sua morte a favore dell’umanità peccatrice. “Dio è amore” (1Gv 4:8). – Mt 5:45-48; 1Gv 3:1,10,13-16;4:19-21.

   Nelle situazioni critiche che si presentano, il credente dovrebbe domandarsi: Cosa ne pena Dio? Cosa farebbe Yeshùa al mio posto?

   La morte di Yeshùa è presentata da Paolo con terminologia sacrificale: “Cristo vi ha amati e ha dato sé stesso per noi in offerta e sacrificio a Dio quale profumo di odore soave” (5:2). Es 29:18 prescriveva: “Farai fumare tutto il montone sull’altare: è un olocausto al Signore; è un sacrificio di odore soave fatto mediante il fuoco al Signore”. Il fumo della carne bruciata in sacrificio si pensava che salisse fino a Dio come profumo gradito: “Noè costruì un altare al Signore; prese animali puri di ogni specie e uccelli puri di ogni specie e offrì olocausti sull’altare. Il Signore sentì un odore soave” (Gn 8:20,21). Si tratta evidentemente di un antropomorfismo per indicare che Dio non è lontano da noi, ma partecipa alla nostra stessa vita e accoglie i nostri sacrifici.

   In 5:3-5 abbiamo un elenco dei peccati: “Come si addice ai santi, né fornicazione, né impurità, né avarizia, sia neppure nominata tra di voi; né oscenità, né parole sciocche o volgari, che sono cose sconvenienti; ma piuttosto abbondi il ringraziamento. Perché, sappiatelo bene, nessun fornicatore o impuro o avaro (che è un idolatra) ha eredità nel regno di Cristo e di Dio”.

   Il credente deve evitare:

  1. La fornicazione (v. 3), vale a dire tutti i comportamenti sessuali che non siano legittimati dal matrimonio.

   L’elenco è in Lv 18:

  • “Nessuno si avvicinerà a una sua parente carnale per avere rapporti sessuali con lei”. – V. 6.
  • “Non disonorerai tuo padre, avendo rapporti sessuali con tua madre”. – V.7.
  • “Non scoprirai la nudità della moglie di tuo padre”. –  V. 8.
  • “Non scoprirai la nudità di tua sorella, figlia di tuo padre e figlia di tua madre”. – V. 9.
  • “Non scoprirai la nudità della figlia di tuo figlio o della figlia di tua figlia”. – V. 10.
  • “Non scoprirai la nudità della figlia della donna di tuo padre, generata da tuo padre: è tua sorella”. – V. 11.
  • “Non scoprirai la nudità della sorella di tuo padre”. – V. 12.
  • “Non scoprirai la nudità della sorella di tua madre”. – V. 13.
  • “Non scoprirai la nudità del fratello di tuo padre, né di sua moglie: è tua zia”. – V. 14.
  • “Non scoprirai la nudità di tua nuora”. – V. 15.
  • “Non scoprirai la nudità della moglie di tuo fratello”. – V. 16.
  • “Non scoprirai la nudità di una donna e di sua figlia; non prenderai la  figlia di suo figlio, né la figlia di sua figlia”. – V. 17.
  • “Non prenderai la sorella di tua moglie”. – V. 18.
  • “Non ti avvicinerai a una donna per scoprire la sua nudità mentre è impura a causa delle sue mestruazioni”. – V. 19.
  • “Non avrai relazioni carnali con la moglie del tuo prossimo”. – V. 20.
  • “Non avrai con un uomo relazioni carnali come si hanno con una donna: è cosa abominevole”. – V. 22.
  • “Non ti accoppierai con nessuna bestia per contaminarti con essa; la donna non si prostituirà a una bestia: è una mostruosità”. – V. 23.
  1. L’impurità, che è un peccato più generico, include altre perversioni oltre a quelle extraconiugali.
  2. L’avarizia si trasforma in idolatria poiché il denaro è messo al posto di Dio.

   Oltre a queste colpe che riguardano le azioni, Paolo raccomanda di evitare i peccati della parola, vale a dire:

  1. Le buffonerie, le “parole sciocche” (v. 4) o “vuote” (significato del greco); stupide, insomma. Il credente deve essere serio. Il che non deve impedirgli di essere allegro, divertente o perfino spiritoso al momento opportuno.
  2. Le parole scurrili: “Oscenità” e parole “volgari” (v. 4). Al posto di queste parole peccaminose, il credente deve rendere grazie: “Piuttosto abbondi il ringraziamento” (v. 4). Non solo deve svuotare, ma riempire: togliere dalle labbra il male per riempirle di bene. Se osserviamo tutte le benedizioni che Dio ci dà giorno per giorno non dovremmo mai cessare di ringraziarlo.

   “Sappiatelo bene, nessun fornicatore o impuro o avaro (che è un idolatra) ha eredità nel regno di Cristo e di Dio” (v. 5). Non c’è via di mezzo: o ci umiliamo davanti a Dio oppure ci facciamo schiavi delle creature e delle cose elevandole al posto del Creatore. Non esistono zone neutre. Qualsiasi pensiero, qualsiasi gesto, qualsiasi azione, ogni cosa, ma proprio ogni cosa, tutto, o lo mettiamo nelle mani di Dio o in quelle del maligno.