Il sacramento, secondo la dottrina cattolica, sarebbe “un segno sensibile che infallibilmente produce, a meno che il soggetto vi ponga ostacoli, una grazia da parte di Dio nella persona su cui tale segno si compie”.
Naturalmente solo Dio potrebbe legare tale dono gratuito a un segno. Ne consegue che i segni d’istituzione divina – tramite Yeshùa o gli apostoli – possono conferire la grazia. Per cui, anche il matrimonio, perché sia annoverato tra i segni efficaci, dovrebbe essere stato voluto da Yeshùa direttamente o almeno indirettamente tramite gli apostoli. Non si può derogare a queste condizioni, a meno di affermare qualcosa che non troverebbe riscontro nei dettami di Yeshùa o degli apostoli.
Perciò è solo e unicamente nel cosiddetto “Nuovo Testamento” (le Scritture Greche della Bibbia) che si dovrebbe trarre la giustificazione – se c’è – per considerare il matrimonio un sacramento.
È appunto ciò che intende fare questo excursus, che rivelerà delle implicazioni molto rilevanti. Se il matrimonio fosse davvero un sacramento, dovremmo rivedere le nostre convinzioni: non apparterebbe più alla sfera civile, ma a quella della congregazione. Ma se il matrimonio – biblicamente parlando – non fosse affatto un sacramento, ne conseguirebbe che la pretesa cattolica sarebbe senza alcun fondamento reale. Questo studio non vuole essere un’indagine polemica, ma solo un esame storico del problema nel suo aspetto biblico (e anche patristico). In questo studio cercheremo di individuare il più possibile la mentalità insita nella problematica biblica e nei suoi aspetti teologici.
Nel presente studio, articolato in due parti, sarà utilizzata la versione CEI (Conferenza Episcopale Italiana) della Bibbia, che è la versione ufficiale della Chiesa Cattolica. Tutte le citazioni bibliche senza indicazione della versione da cui sono tratte sono, quindi, nel presente excursus, da intendersi tratte dalla CEI. Eventuali citazioni da altre versioni della Bibbia saranno invece indicate. In omaggio al sistema cattolico, useremo qui anche la maniera cattolica di scrivere le citazioni. Ad esempio, Mt 1:1,2,4 sarà scritto Mt 1,1.2.4.
Il testo biblico
Ovviamente – come riconosciuto, del resto, anche da parte cattolica – la partecipazione di Yeshùa alle nozze di Cana (Gv 2,1.11) non serve a dimostrare la sacralizzazione del matrimonio. Così, neppure il fatto che Paolo raccomandi alle vedove di sposarsi “nel Signore”. – 1Cor 7,39.
Il primo caso (nozze di Cana) vuol solo insegnare che Yeshùa era alieno da ogni forma di gnosticismo o di manicheismo latente nella filosofia persiana che vedeva nel matrimonio (considerato opera della carne) l’attività dello spirito malvagio opposto a Dio. A simili idee infiltratesi nella congregazione (o chiesa) allude Paolo in 1Tm 4,1-4, bollandole di eresia.
Il secondo passo (quello paolino) vuol dire che il credente in tutte le sue azioni (matrimonio compreso) deve agire in armonia con la sua fede e preferire la scelta di un consorte tra persone della sua stessa fede. Non si può qui prendere l’espressione “nel Signore” per far riferimento al sacramento. Infatti, allo “schiavo che è stato chiamato nel Signore” (1Cor 7,22) Paolo raccomanda di rimanere sottomesso al suo padrone. Il che esclude ogni sacralizzazione dell’espressione “nel Signore” (a meno di voler ammettere la schiavitù come sacramento!). Si noti anche che l’espressione “nel Signore” riferita alla vedova e allo schiavo è nello stesso contesto.
Il passo fondamentale – per non dire unico – addotto a sostegno della sacralizzazione del matrimonio rimane quello che contiene delle raccomandazioni ai coniugi di Efeso:
“Le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore; il marito infatti è capo della moglie, come anche Cristo è capo della Chiesa, lui che è il salvatore del suo corpo. E come la Chiesa sta sottomessa a Cristo, così anche le mogli siano soggette ai loro mariti in tutto. E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola, al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata. Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo, perché chi ama la propria moglie ama se stesso. Nessuno mai infatti ha preso in odio la propria carne; al contrario la nutre e la cura, come fa Cristo con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo. Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due formeranno una carne sola. Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa! Quindi anche voi, ciascuno da parte sua, ami la propria moglie come se stesso, e la donna sia rispettosa verso il marito”. – Ef 5,22-33.
Anche qui, come nel caso schiavo-padrone, Paolo non tenta di cambiare la mentalità dell’epoca per ciò che riguarda i rapporti sociali. Egli usa una terminologia che può sembrare poco corrispondente alla psicologia odierna, giacché parla di “capo” e di “sottomissione” della donna. Ma in questi termini, che possono essere fraintesi dal lettore d’oggi, immette il lievito nuovo dell’amore. Un amore che rispecchia quello di Yeshùa: essere pronti a donare la vita, come fece lui. Un amore che riproduce il rispetto e la devozione della chiesa verso il Cristo.
Paolo poi continua a ragionare dicendo che in fondo l’amore del marito verso la donna non è altro che un amore verso se stesso, perché i due formano un essere solo, così come anche Cristo e la sua chiesa formano un corpo unico. Seguono poi le parole che starebbero alla base di ogni dimostrazione della sacralizzazione matrimoniale:
“Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!”. – V. 32.
La Vulgata traduce: “Sacramentum hoc magnum est ego autem dico in Christo et in ecclesia”. Ormai è riconosciuto da tutti gli studiosi che non fu la parola “sacramentum” (“sacramento”) con cui la Vulgata tradusse il termine greco μυστήριον (müstèrion) a creare la sacralizzazione del matrimonio. Fu invece tutto il ragionamento paolino interpretato in un certo modo. Come esempio per tutti, si può citare lo studioso H. Schlier che sostiene che “l’immagine, cioè il matrimonio terreno, riceve, assume, e rappresenta il modello, cioè il rapporto di Cristo con la Chiesa. Nel matrimonio terreno viene conservato nella sua essenza il rapporto di Cristo con la Chiesa” (H. Schlier, Lettera agli Efesini, Paideia, Brescia, pag. 322, nota 45). E J. Huby scrive: “L’union de l’homme et de la femme dans le mariage tel que Dieu l’a établi, est le symbole de l’union du Christ et de son Eglise”. – Saint Paul, Les épitres de la captivité, Verbum Salutis VIII, Paris.
Occorre quindi far riferimento alle interpretazioni.
Le interpretazioni di Ef 5,32
Il “mistero” starebbe nel rapporto Cristo-Chiesa. Per comprendere bene un testo antico – specialmente biblico – occorre dimenticare tutta la problematica moderna e raffigurarsi cosa poteva suggerire quel testo ai lettori del suo tempo. Ora, si ricordi che Paolo si rivolge ai coniugi ovvero a persone già sposate. Non poteva quindi avere in mente le nozze che costituiscono il vincolo con cui si contrae il matrimonio. Sono queste (le nozze) che creano il sacramento nella visuale cattolica. Paolo non sta parlando, nel passo di Ef delle nozze, ma della vita matrimoniale.
Tuttavia, l’idea che si tratti comunque lo stesso di sacralizzazione non è abbandonata dai teologi cattolici. Questi vedono nella vita matrimoniale una certa continuità della sacralizzazione, simile a quella dell’eucaristia. Secondo la spiegazione che dà la teologia cattolica, si continuerebbe quello che già si è iniziato. Il ragionamento appare logico: se vi è sacralizzazione nella vita coniugale, significa che ci fu un momento in cui fu conferito il sacramento, giacché non può esserci continuità senza un inizio. Perciò si conclude: l’atto giuridico e fondamentale che costituisce il sacramento è pur sempre quello iniziale, che poi si continuerà per tutta la durata della vita a due. Di più, fanno rilevare i teologi cattolici, come il credente in ogni suo atto deve far proprio il comportamento e la vita del Cristo, così anche nella sua vita matrimoniale egli deve rispecchiare il mutuo comportamento d’amore tra Yeshùa e la chiesa.
La possibilità di comportarsi in tal modo proviene dal fatto che i credenti sono rivestiti di Cristo tramite il battesimo, che è appunto il bagno nell’acqua compiutosi per mezzo della parola (la quale, probabilmente, è la professione di fede che accompagnava l’atto battesimale del credente; cfr. At 8,37; 1Tm 6,12). È da esso che sgorga la vita dello spirito che permea e feconda ogni atto umano, compresa la vita matrimoniale. Si ricordi che l’afflusso del dono divino, ricevuto nel battesimo, deve orientare tutta la vita la vita del credente e dare un’impronta nuova (“nel Signore”) ai vincoli tra credente e credente (Ef 5,21), tra figli e genitori (6,1-4) e tra schiavi e padroni. – 6,5-9.
A questo punto s’introduce un’idea nuova: i due coniugi formano una realtà unica, una “carne” sola, così come Cristo e la chiesa costituiscono un “corpo” unico. Il primo fatto è confermato con un’allusione alle parole messe sulla bocca di Adamo appena vide Eva: “Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due formeranno una carne sola” (Ef 5,31). Seguono poi le parole: “Questo mistero è grande”. – V. 32.
A quale delle due idee che prima Paolo ha intrecciato si riferisce la parola “mistero”? All’unione Cristo-Chiesa o a quella marito-moglie? Ecco il problema, cui occorre dare risposta.
Prima di tutto va notato che la parola “mistero” ricorre più volte in Ef e si riferisce sempre all’unione Cristo-Chiesa, in cui gli stessi pagani possono entrare (a parità di diritti) con gli ebrei. Gli ebrei, contrariamente a Paolo, pensavano invece che l’era messianica fosse riservata ai soli giudei e a quei gentili che lasciavano il paganesimo per entrare a far parte del popolo ebraico con la circoncisione. Il fatto che i pagani potessero entrare nella chiesa (e senza circoncisione) costituiva un “mistero” perché era umanamente non conoscibile tanto agli ebrei quanto ai gentili. Progetto misterioso di Dio, quindi, finché non su rivelato da Dio stesso (particolarmente a Paolo).
Il “mistero” biblico indica una realtà prima ignota che poi viene rivelata e compresa dagli uomini. Ad esempio, in 1Cor 15,51 si ha lo svelarsi di un mistero: “Ecco io vi annunzio un mistero: non tutti, certo, moriremo, ma tutti saremo trasformati”. Solo successivamente, in tempi non più apostolici, si formò l’idea di un “mistero” che rimane tale anche dopo che è stato svelato, nel senso che rimane impenetrabile anche all’ingegno più acuto.
Comunque, va notato che Paolo ha sempre nel suo subcosciente – come elemento dominante – il pensiero degli intimi legami tra Yeshùa e la chiesa o congregazione. Ogni tanto questo pensiero affiora e si esprime in termini molto chiari.
Il “mistero”, in Ef, è un evento escatologico che l’uomo non può conoscere con il proprio ragionamento, ma solo dopo la rivelazione di Dio liberamente donata ai suoi eletti. Esso concerne non solo la riunione dei giudei e dei gentili (Ef 3,6), ma anche la relazione tra Cristo e la chiesa poiché tutti i credenti che entrano a far parte della chiesa diventano membri del corpo di Cristo che ne è il capo. – Ef 3,10;1,23.
Sarebbe più che sufficiente il contesto remoto per capire molto bene ciò cui Paolo intendeva riferirsi quando parlava di “mistero grande”, vale a dire importante (perché “grande” è in senso qualitativo: di grande valore). Ma per togliere ogni ombra di dubbio, egli così continua: “Lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!” (Ef 5,32). Dato l’intreccio precedente delle idee che poteva prestarsi a confusione, Paolo precisa: Mi riferisco qui non al matrimonio e all’unione dei coniugi, ma all’unione tra Cristo e la chiesa. Il passo letteralmente suona:
ἐγὼ δὲ λέγω εἰς Χριστὸν καὶ εἰς τὴν ἐκκλησίαν
egò de lègo èis Christòn kài èis ten ekklesìan
io però dico per Cristo e per la chiesa
Il teologo H. Schlier, per poterlo riallacciare al matrimonio o alla precedente citazione (v. 31: “una carne sola”), è costretto a introdurvi erroneamente un “lo” nella traduzione, come se fosse: ‘Io lo riferisco a Cristo e alla chiesa’. Ciò è però molto scorretto, perché quel “lo” non si trova nel testo. In più, lo stesso studioso pretende – senza poterlo documentare – che qui Paolo dia l’esatta interpretazione delle parole generiche della Genesi: esse alluderebbero a Cristo e alla chiesa, anziché riferirsi alle speculazioni gnostiche che vi trovavano la base per le loro sizigie e i vari eoni da loro immaginati. Lo studio dello Schlier è molto erudito, ma alieno dal testo biblico. Noi però possiamo dire che Paolo si opponesse davvero a tutte queste speculazioni gnostiche? Molti pensano che non poteva essere così, perché Paolo non le conosceva, visto che lo gnosticismo apparve nel 2° secolo. Dal fatto che Paolo allude chiaramente nei suoi scritti a queste speculazioni, possiamo dire che esse esistevano già, magari in germe, al suo tempo. In Col Paolo parla, infatti, di angeli, principati, dominazioni; non usa, è vero, la parola “eoni”, ma al suo tempo la gnosi era solo incipiente.
Comunque, non si vede come Paolo potesse esprimersi più chiaramente per eliminare ogni malinteso. Non voleva riferire il “mistero grande” alla vita coniugale, ma al rapporto Cristo-Chiesa: “Lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!”. – Ef 5,32.
Il “mistero” consistente nel connubio Cristo-Chiesa deve essere uno stimolo per i credenti affinché esprimano nel loro connubio terreno e matrimoniale il comportamento d’amore esistente tra Cristo e la chiesa. Questo stimolo può essere attuato dal credente quando non è solo, ma ha in sé la potenza dello spirito santo, ricevuto al battesimo, che lo aiuta a compiere questo suo dovere.
Le considerazioni precedenti obbligano a respingere l’applicazione del termine “mistero” al matrimonio preso in se stesso, com’è invece pensiero comune dei cattolici e anche di qualche protestante.
Il “mistero” starebbe nel rapporto marito-moglie che richiama il mistero più grande Cristo-Chiesa. Mentre nell’interpretazione precedente il rapporto Cristo-Chiesa era il punto di partenza (secondo il quale doveva essere modellato il matrimonio dei credenti), in questa seconda ipotesi (dominante nel cattolicesimo moderno) si parte invece dal matrimonio preso in se stesso. Esso sarebbe un mistero perché nell’unione coniugale farebbe risalire la nostra mente e quella dei coniugi all’altra unione più grande esistente tra il Cristo e la chiesa.
Sarebbe un po’ come il rivedere la fotografia di una persona cara: la mente risale fino alla persona amata. Così l’unione matrimoniale richiamerebbe – quasi fosse un’immagine – l’unione Cristo-Chiesa. Anzi, donerebbe ai coniugi la grazia di poter vivere tale unione nella loro vita matrimoniale. Ovviamente – riconoscono i teologi che appoggiano questa ipotesi -, tali concetti non sono insegnati chiaramente da Paolo, ma soltanto “insinuati”, per usare un termine caro al Concilio di Trento. “Gratiam vero, quae naturalem illum amorem perficeret, et indissolubilem unitatem confirmaret, coniugesque sanctificaret: ipse Christus… sua nobis passione promeruit… quod Paulus apostolus innuit dicens”, e qui si riferisce appunto a Ef 5,32. – Concilio di Trento, Sessione XXIV dell’11 novembre 1563.
“L’apostolo non afferma in termini espliciti che il rito del matrimonio conferisce la grazia e che esso è il segno di quello che conferisce, ma semplicemente che il matrimonio cristiano simboleggia l’unione tra Cristo e la Chiesa, e che richiede la pratica di virtù soprannaturali da parte di marito e moglie. Ma queste dichiarazioni contengono chiaramente la conclusione che la grazia viene conferita nel seno della Chiesa, e per rendere possibile l’osservanza dei doveri che così vengono imposti; e inoltre che il rito è un segno esterno e visibile di questo dono di grazia. Il Concilio di Trento si accontenta di affermare che, con queste parole, l’Apostolo insinua il valore sacramentale del matrimonio”. – G. H. Joice, Matrimonio cristiano, Alba, pag. 154.
Prima di tutto dobbiamo notare come sia qui capovolto il ragionamento che Paolo fa in tutta la pericope. Paolo non parla mai del matrimonio come se donasse la grazia di attuare la vita coniugale a imitazione di Cristo e della chiesa. Egli parla del vincolo Cristo-Chiesa che deve essere riprodotto dai coniugi credenti già sposati. La grazia necessaria per questa vita coniugale è data “per mezzo del lavacro dell’acqua” (5,26), non dal matrimonio. È questo bagno o lavacro che, purificandoli, abilita i credenti (tutta la chiesa) a ricevere la santificazione dal Cristo non tramite il sacramento delle nozze ma tramite lo spirito santo che dimora in loro. Con questo “lavacro” purificatore tutta la chiesa è santificata, coniugi compresi. Tutto il resto è un voler introdurre nella Bibbia una problematica teologica posteriore.
In questa seconda ipotesi, dunque, Paolo partirebbe dal matrimonio per risalire al Cristo e alla chiesa. Ma il testo biblico, invece, mostra chiaramente che Paolo scende dal Cristo e dalla chiesa per insegnare ai coniugi come devono vivere la loro vita coniugale.
Se l’ipotesi fosse vera, per insegnare che il matrimonio dovrebbe richiamare e in un certo senso riprodurre in immagine le nozze di Cristo, Paolo avrebbe dovuto scegliere una parola più adeguata che non “mistero”. Come abbiamo visto, il “mistero” è nella Bibbia una realtà prima ignota e fatta poi conoscere tramite la rivelazione; non è un segno sacro che contenga e in certo modo riproduca una realtà spirituale superiore. Se Paolo avesse voluto dare quest’ultimo significato avrebbe dovuto adoperare altri termini di cui lui stesso fa uso. Infatti, per la Cena del Signore e per il battesimo (che sono immagini di realtà spirituali superiori che riproducono tali realtà a modo di segno, non sostanzialmente), Paolo usa i termini “rimembranza” e “similitudine”.
Per la Cena del Signore, Paolo parla di ἀνάμνησις (anàmnesis), “memoriale”, vale a dire un atto che ci fa ricordare, rendendo in certo qual modo presente e sperimentabile nel segno usato, l’atto efficace della morte del Cristo. – 1Cor 11,24.
Per il battesimo, Paolo usa la parola ὁμοίωμα (omòioma), “similitudine”, che indica qualcosa che include in se stessa una riproduzione della morte e resurrezione del Cristo.
Questi due termini sarebbero stati ben più adatti per insegnare che i coniugi avrebbero in loro stessi la virtù di riprodurre e di far ricordare il vincolo d’amore di Yeshùa verso la congregazione (o di Gesù verso la Chiesa, se vogliamo usare la terminologia cattolica). L’uso del vocabolo “mistero”, che ha un senso totalmente diverso, ci fa capire che l’intento paolino era ben diverso dall’esegesi che questi autori cattolici vogliono introdurre nella pericope paolina. Del resto, lo studioso J. Huby è costretto a riconoscere che chi vede nel “mistero” il simbolo dell’unione Cristo-Chiesa attribuisce a questo termine un senso che mai si trova altrove nelle epistole paoline (Saint Paul, Les épitres de la captivité, Verbum Salutis VIII, Paris). Nelle Scritture Greche (il cosiddetto Nuovo Testamento) un “mistero” non è mai un segno o un simbolo.
Anche il ragionamento è diverso. In Rm, dalla morte battesimale Paolo deduce che i credenti devono vivere di continuo il loro battesimo, facendo morire le membra che tendono al peccato (Rm 6). Qui, al contrario, Paolo non dice per nulla che – giacché nelle nozze è stato contratto un segno che riproduce l’unione Cristo-Chiesa – si debba far realmente vivere nel comportamento coniugale quotidiano tale unione. No! Egli non accenna per niente a quest’unione, ma rivolgendosi ai coniugi già sposati – forse sposati ancora prima della loro conversione – raccomanda di riprodurre, non nelle nozze, ma nella vita coniugale l’amore del Cristo per la chiesa e l’atteggiamento della chiesa verso il Cristo.
In ogni caso, a chi volesse a tutti i costi cogliere – nonostante tutte le difficoltà esegetiche inerenti – proprio il fatto che le nozze riprodurrebbero l’unione Cristo-Chiesa, occorrerebbe ricordare che saremmo comunque ancora ben lontani dall’aver raggiunto la dimostrazione che il matrimonio sia un sacramento.
Infatti, Paolo – riallacciandosi al matrimonio com’era in origine (Gn) e parlando in genere del connubio che fa delle due persone una sola – mostra di riferirsi non elusivamente al matrimonio tra credenti, ma al matrimonio esistente tra tutti i popoli. In tutti i matrimoni, e non solo in quelli tra credenti, si forma un essere solo con l’unione coniugale dei due sposi. Ora, l’unione di non credenti non potrebbe essere affatto un “sacramento”, dato che il “sacramento” – nella teologia cattolica – esige prima di tutto il battesimo. Sarebbe allora necessario introdurre nel ragionamento di Paolo una limitazione di cui però non c’è traccia nel contesto.
Inoltre, dato che presso tutti i popoli – greci, romani ed ebrei compresi – il matrimonio era considerato non qualcosa di sacro ma un puro contratto tra i due coniugi, se Paolo avesse voluto presentarne la sacralità sacramentale, avrebbe dovuto esprimersi con maggiore chiarezza, poiché il suo insegnamento sarebbe stato del tutto nuovo e sarebbe stato frainteso dai suoi lettori.
Da tutte le considerazioni precedenti è giocoforza tornare all’esegesi che è stata proposta per respingere altre ipotesi interpretative. Questa esegesi è fatta propria anche dal gesuita J. Cambier, come appare dalla seguente citazione:
“Il Cristo, Capo della sua Chiesa e suo Salvatore, ha amato la Chiesa sino a morire per essa; è là che si spiega la nascita d’una Chiesa santa e senza macchia, divenuta Corpo del Cristo, intimamente unita a lui come la sposa è unita al suo sposo. È a questo fatto che noi riallacciamo l’esclamazione di 5,32: ‘Là vi è un mistero profondo, io parlo di quello che riguarda il Cristo e la sua Chiesa’. Essa serve di conclusione a ciò che era stato l’oggetto principale delle preoccupazioni di Paolo in quest’ultima parte [della sua lettera], e questo sotto l’influsso della dottrina sul Cristo e sulla Chiesa in tutta la sua epistola”. – J. Cambier, Le grand misture concernano le Christ et son Elise, in “Biblica” 47, pagg. 231, 232.
Se tale è l’interpretazione da dare a questo brano paolino ne deriva che non si può trovare alcun appoggio per difendere la sacralizzazione del matrimonio.
La capacità di vivere nel matrimonio è collegata alla potenza dello spirito che si riceve al battesimo, e non a uno speciale dono chiamato “sacramento” conferito dal matrimonio. “Quanto più sarà glorioso il ministero dello Spirito?” (2Cor 3,8). “È Dio infatti che suscita in voi il volere e l’operare secondo i suoi benevoli disegni” (Flp 2,13). “Il Dio della pace che ha fatto tornare dai morti il Pastore grande delle pecore, in virtù del sangue di un’alleanza eterna, il Signore nostro Gesù, vi renda perfetti in ogni bene, perché possiate compiere la sua volontà, operando in voi ciò che a lui è gradito per mezzo di Gesù Cristo”. – Eb 13,20.21.