I libri profetici della Bibbia ebraica iniziano normalmente menzionando la chiamata dei loro autori, che sono i profeti scrittori. Riportiamo alcuni esempi:
Is 1:1 |
“Visione che Isaia, figlio di Amots, ebbe” |
Is 6:1-8 |
“Nell’anno della morte del re Uzzia, vidi il Signore seduto sopra un trono alto, molto elevato, e i lembi del suo mantello riempivano il tempio. Sopra di lui stavano dei serafini, ognuno dei quali aveva sei ali; con due si copriva la faccia, con due si copriva i piedi, e con due volava. L’uno gridava all’altro e diceva: «Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti! Tutta la terra è piena della sua gloria!» Le porte furono scosse fin dalle loro fondamenta dalla voce di loro che gridavano, e la casa fu piena di fumo. Allora io dissi: «Guai a me, sono perduto! Perché io sono un uomo dalle labbra impure e abito in mezzo a un popolo dalle labbra impure; e i miei occhi hanno visto il Re, il Signore degli eserciti!» Ma uno dei serafini volò verso di me, tenendo in mano un carbone ardente, tolto con le molle dall’altare. Mi toccò con esso la bocca, e disse: «Ecco, questo ti ha toccato le labbra, la tua iniquità è tolta e il tuo peccato è espiato». Poi udii la voce del Signore che diceva: «Chi manderò? E chi andrà per noi?» Allora io risposi: «Eccomi, manda me!»”. |
Ger 1:1-4 |
“Parole di Geremia, figlio di Chilchia, . . . La parola del Signore gli fu rivolta al tempo di . . . La parola del Signore mi fu rivolta in questi termini . . .” |
Ez 1:1-4 |
“Il trentesimo anno … la parola del Signore fu rivolta al sacerdote Ezechiele . . . Io guardai, ed ecco . . .” |
Ez 2:1 |
“Mi disse: «Figlio d’uomo, àlzati in piedi, io ti parlerò»” |
Ez 3:22 |
“In quel luogo la mano del Signore fu sopra di me” |
Allo stesso modo, il veggente Giovanni dà da subito alcuni ragguagli sulla missione che gli è stata affidata divinamente, mostrando così che egli è autorizzato a parlare. Chi ha affidato tale missione a Giovanni non è Dio, ma Yeshùa risorto e glorificato. Dio convalida la rivelazione.
“Io, Giovanni, vostro fratello e vostro compagno nella tribolazione, nel regno e nella costanza in Gesù, ero nell’isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù. Fui rapito dallo Spirito nel giorno del Signore, e udii dietro a me una voce potente come il suono di una tromba, che diceva: «Quello che vedi, scrivilo in un libro e mandalo alle sette chiese: a Efeso, a Smirne, a Pergamo, a Tiatiri, a Sardi, a Filadelfia e a Laodicea»”. – Ap 1:9-11.
Giovanni si identifica come “fratello” delle comunità cui scrive, ma dice anche altro che è bene considerare nella successione usata da Giovanni.
- “Vostro compagno nella tribolazione”: è partecipe delle persecuzioni e oppressioni che opprimo la chiesa nel
tempo finale.
- “Vostro compagno … nel regno: per accedere al Regno occorre superare la “tribolazione”. “Dobbiamo entrare
nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni”. – At 14:22.
- “Vostro compagno … nella costanza”: occorre mantenersi costanti e persistere. “Siccome hai osservato la mia
esortazione alla costanza, anch’io ti preserverò dall’ora della tentazione che sta per venire sul mondo intero”. –
Ap 3:10.
“Vostro compagno … in Gesù”. Questa espressione designa la comunione e l’appartenenza a Yeshùa. Chi appartiene a Yeshùa ed è in intima unione con lui, sa perseverare fedele fino alla fine.
Giovanni esprime così la sua consapevolezza e il suo orgoglio (umile, in quanto “fratello”) di essere unito ai suoi lettori da una comunione che li lega a Yeshùa.
Passa poi a dire le circostanze della sua chiamata: si trova in una delle isole Sporadi (usate dai romani per mandarvi gente al confino), Patmos, di fronte all’Asia Minore, la moderna Turchia. Giovanni ne spiega anche il motivo: “A causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù”; evidentemente le autorità romane lo avevano confinato per impedirgli di diffondere idee ritenute facinorose per la popolazione da essi sottomessa.
“Nel giorno del Signore”. Ha del ridicolo la traduzione che fa il Diodati: “Nel giorno della Domenica”, che comunque non è stata mantenuta nella Nuova Diodati. Il testo greco ha ἐν τῇ κυριακῇ ἡμέρᾳ (en tè kyriakè emèra), “nel signorile giorno”, intendendo signorile come appartenente a Dio: “nel giorno del Signore”, appunto. Se dovesse trattarsi di un giorno della settimana, sarebbe casomai il sabato, dato che Yeshùa “è signore del sabato” (Mt 12:8). Occorre però riferirsi al senso che “giorno del Signore” ha nella Bibbia (cfr. 1Cor 1:8;5:5). Inoltre, Giovanni venne a trovarsi “nel giorno del Signore” per ispirazione. La sua esperienza può essere assimila, per certi versi, a quella di Paolo che “fu rapito in paradiso, e udì parole ineffabili” (2Cor 12:2). Paolo non fu rapito mentre entra in paradiso, ma fu rapito per essere portato in paradiso. Si potrebbe osservare che Paolo dice ἡρπάγη εἰς τὸν παράδεισον (erpàghe eis tòn paràdeison), parlando di rapimento e usando il moto a luogo (εἰς τὸν, eis tòn), mentre Giovanni usa lo stato in luogo (ἐν, en). Giovanni però non parla di rapimento e di trasporto, nonostante NR traduca “fui rapito dallo Spirito”. In Ap 1:10 è invece detto:
ἐγενόμην ἐν πνεύματι ἐν τῇ κυριακῇ ἡμέρᾳ
eghenòmen en pnèumati en tè kyriakè emèra
venni a trovarmi in spirito in il del Signore giorno
Per dirla con TNM: “Mediante ispirazione mi trovai nel giorno del Signore”. L’idea di trovarsi nella sfera celeste per acquisire una speciale conoscenza è biblica e la troviamo presso i profeti. “In spirito”, ἐν πνεύματι (en pnèumati), non deve far pensare a un’estasi in stato di incoscienza. I profeti non erano degli estatici (cfr. la lezione 360 (PRF) – L’estasi e i profeti biblici della Facoltà Biblica). Giovanni non perde la sua coscienza e rimane consapevole di ogni cosa. Trovandosi “in spirito nel giorno del Signore”, rimane sveglio e vede e ode ciò che descrive.
Giovanni ode “una voce potente”, con un timbro particolare che lui descrive “come il suono di una tromba” (Ap 1:10). Il “come” o “simile a” rientra nelle descrizioni apocalittiche; lo troviamo anche, ad esempio, in Dn 7:4 e sgg.. Giovanni usa molto questi termini (“come” o “simile a”). In che modo si può descrivere una visione celestiale? Mancano le parole e per descrivere le scene si può ricorrere solo a paragoni approssimativi.
La possente voce udita da Giovanni gli dà un ordine: “Quello che vedi, scrivilo in un libro e mandalo alle sette chiese” (Ap 1:11). Abbiamo già osservato che in Asia Minore c’erano più sette comunità; ad esempio, c’erano le congregazioni di Colosse e di Mileto, che non sono menzionate tra le sette. Già sappiamo il senso e l’importanza che riveste il numero 7. Viene però spontaneo domandarsi perché proprio quelle sette. In verità, sono possibili solo delle ipotesi. Osservando la loro dislocazione (si veda la cartina), si nota che tutte e sette si trovano su una particolare strada romana:
Caratteristiche delle sette chiese apocalittiche
- Tutte e sette si trovano sulla grande strada romana che da Efeso, passando per Smirne, raggiunge Pergamo per poi ridiscendere a sud, passando per Tiàtira, Sardi e Filadelfia, fino a Laodicea.
- Tutte e sette erano sedi di tribunali romani.
- Tutte e sette erano sedi di autorità imperiali romane.
- Tutte sette erano città in cui era reso, per le due ragioni precedenti, un culto più sentito all’imperatore romano.
- Tutte e sette queste comunità di credenti erano quindi più esposte a dure prove.
Ricevuto da quell’autorevole voce l’ordine di scrivere ciò vedrà, Giovanni si volta: “Io mi voltai per vedere chi mi stava parlando” (Ap 1:12). La reazione è tale che il veggente la spiega così: “Quando lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto”. – Ap 1:17.
Cosa vide Giovanni?
“Come mi fui voltato, vidi sette candelabri d’oro e, in mezzo ai sette candelabri, uno simile a un figlio d’uomo, vestito con una veste lunga fino ai piedi e cinto di una cintura d’oro all’altezza del petto. Il suo capo e i suoi capelli erano bianchi come lana candida, come neve; i suoi occhi erano come fiamma di fuoco; i suoi piedi erano simili a bronzo incandescente, arroventato in una fornace, e la sua voce era come il fragore di grandi acque. Nella sua mano destra teneva sette stelle; dalla sua bocca usciva una spada a due tagli, affilata, e il suo volto era come il sole quando risplende in tutta la sua forza”. – Ap 1:12-16.
Nella Bibbia si parla di un candelabro solo, a sette bracci, la menoràh (Es 25:31-40). Nella sua visione apocalittica, Giovanni ne vede sette. Cosa significano? Lo dice lui stesso poco dopo, in Ap 1:20: “I sette candelabri sono le sette chiese”.
Ritorna un “simile a” per descrivere colui che (cfr. Dn 7:13) sta in mezzo alle sette chiese-candelabri. Si tratta di Yeshùa glorificato che agisce con il potere che Dio gli ha dato.
La “veste lunga fino ai piedi” indica la dignità di Yeshùa quale sommo sacerdote (Eb 3:1; Es 28:4). La “cintura d’oro” indica la sua dignità regale, perché erano i re a portarla (cfr. 1Maccabei 10:89). Yeshùa è così presentato come re sacerdote, alla maniera di Melchisedec che lo tipificava (Sl 110:1,4; Eb 6:20;5:10). Yeshùa appare talmente glorificato, risplendendo di luce abbagliante, che “il suo capo e i suoi capelli erano bianchi come lana candida, come neve”. A Yeshùa, in stretta e intimissima relazione con Dio, Giovanni applica gli attributi che sono propri di Dio, così come si leggono in Dn 7:9. L’incarico di giudice ricevuto da Dio, rende Yeshùa, per certi versi, uguale Dio. “I suoi occhi”, che sono “come fiamma di fuoco” (cfr. Dn 10:6), penetrano tutto, nulla escluso. “I suoi piedi erano simili a bronzo incandescente”, come in Dn 10:6. La sua voce può essere solo paragonata al fragore delle cascate d’acqua, come in Ez 43:2. La mano destra simboleggia la forza e la potenza perché è questo il senso biblico di “destra”. Nella sua mano destra Yeshùa tiene delle stelle, e qui ritorna in numero 7. Il dio Mitra dei romani (comune ai persiani e ai greci) aveva la costellazione dell’Orsa Minore nella destra, costellazione costituita da sette stelle più brillanti così come vista nel primo secolo, e chiamata dai romani Septemtriones (= 7 buoi). Non fa quindi meraviglia che Giovanni mostri in tal modo che Yeshùa è superiore all’Impero Romano, tendone nella sua destra il simbolo. La “spada a due tagli, affilata”, che gli esce dalla bocca indica che Yeshùa è giudice (cfr. Is 11:4;49:2); in Ap 19:15 è detto che “dalla bocca gli usciva una spada affilata per colpire le nazioni”. Infine, nella frase “il suo volto era come il sole quando risplende in tutta la sua forza”, riecheggiano le parole di Gdc 5:31: “Coloro che ti amano siano come il sole quando si alza in tutta la sua forza!”.
A conclusione delle sezione Ap 1:9-20, Giovanni spiega come Yeshùa gli ha affidato la missione e come lui ha reagito.
“Quando lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli pose la sua mano destra su di me, dicendo: «Non temere, io sono il primo e l’ultimo, e il vivente. Ero morto, ma ecco sono vivo per i secoli dei secoli, e tengo le chiavi della morte e dell’Ades. Scrivi dunque le cose che hai viste, quelle che sono e quelle che devono avvenire in seguito, il mistero delle sette stelle che hai viste nella mia destra, e dei sette candelabri d’oro. Le sette stelle sono gli angeli delle sette chiese, e i sette candelabri sono le sette chiese”. – Ap 1:17-20.
Giovanni aveva conosciuto Yeshùa in carne e ossa. Aveva vissuto con lui alcuni anni; la notte prima che il suo Maestro fosse ucciso, era seduto accanto a lui (Gv 13:23); gli era stato molto vicino e in confidenza. Ora stramazza a terra, viene meno. Quello che vede, infatti, è Yeshùa glorificato. Il Figlio dell’uomo però lo rassicura, posandogli una mano sul capo. Si noti che la mano è la destra, che prima era occupata a tenere le sette stelle. Ciò ci dà uno spaccato della visione: le scene si susseguono e cambiano, mutano, sono in divenire. Il tocco di Yeshùa ha un potere rigenerante su Giovanni. Per tranquillizzarlo ulteriormente, Yeshùa gli conferma che è proprio lui, quello che aveva conosciuto. Ora però Yeshùa si attribuisce dei titoli importanti, eccelsi. “Io sono il primo e l’ultimo”, afferma. Questa definizione l’abbiamo già notata in Is 44:6 attribuita a Dio e abbiamo già osservato che Yeshùa è in così stretta intimità con Dio che alcuni suoi titoli rasentano quelli attribuiti a Dio. Qui, però, non c’è l’uso di uno stesso titolo ma piuttosto un uso relativo. In quale senso Yeshùa è “il primo e l’ultimo”? Si noti che subito dopo essersi applicato questo attributo, Yeshùa spiega di essere “il vivente”, e aggiunge: “Ero morto, ma ecco sono vivo”. L’espressione ha quindi a che fare con la sua morte e la sua risurrezione.
Il primo e l’ultimo
in Is 44:6 si legge: “Così parla il Signore, re d’Israele e suo redentore, il Signore degli eserciti: ‘Io sono il primo e sono l’ultimo, e fuori di me non c’è Dio’”. Venendo da Dio stesso, questa solenne dichiarazione esprime una verità assoluta: Dio è il Primo e l’Ultimo. La specificazione “fuori di me non c’è Dio” rende questa verità, di per sé assoluta, unica. Le parole di Yeshùa, in Ap, con cui il nostro caro Salvatore si definisce “primo e ultimo” vanno quindi prese in senso relativo. La dichiarazione assoluta di Dio, che oltre a Lui non c’è alcun Dio, esclude che Yeshùa – che fu sempre ubbidente a Dio e che si sottometterà a Dio anche dopo aver ricondotto l’intero universo sotto la sovranità di Dio (1Cor 15:27,28) – stesse reclamando la posizione che spetta solo a Dio. Le sue parole non possono quindi che essere intese in senso relativo. Va notato che in Ap 1:18 Yeshùa spiega: “Ero morto, ma ecco sono vivo per i secoli dei secoli, e tengo le chiavi della morte e dell’Ades”, e ciò lo dice subito dopo aver dichiaro di essere il primo e l’ultimo (al v. 17). Yeshùa è “il primo” uomo che è stato risuscitato da Dio alla vita immortale in spirito (Col 1:18) ed è “l’ultimo” ad avere avuto tale risurrezione direttamente da Dio, perché per tutti gli altri che saranno risuscitati è lui stesso a essere “la risurrezione e la vita” (Gv 11:25); è Dio che gli ha dato tale autorità, tanto che Yeshùa può affermare: “Tengo le chiavi della morte e dell’Ades”. – Ap 1:18.
Yeshùa ha avuto una risurrezione senza pari, unica perché operata da Dio in persona. In ciò egli è davvero “il primo e l’ultimo”. Con la Bibbia, possiamo quindi inneggiare: “Al Re eterno, immortale, invisibile, all’unico Dio, siano onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen”. – 1Tm 1:17.
Avendo vinto la morte perché risuscitato da Dio, Yeshùa ha “le chiavi della morte e dell’Ades”. Dopo aver rassicurato Giovanni, “il discepolo che egli amava” (Gv 19:26), Yeshùa gli rinnova l’ordine scrivere. Ora però gli viene specificato ciò che deve scrivere. Prima di tutto, “le cose che hai viste, quelle che sono”, poi “quelle che devono avvenire in seguito”. Sembrerebbe qui che si parli di tutto il corso della storia: passato, presente e futuro, ma così non è perché manca il riferimento al passato. Il libro di Ap non riguarda la storia antica. Concerne unicamente gli eventi che iniziano con la morte e risurrezione di Yeshùa, guardando al futuro. A Giovanni non è ordinato di scrivere ‘ciò che era’ ma: “Le cose che hai viste” ovvero quelle viste in visione. Viene poi data a Giovanni la spiegazione di ciò che ha visto: “Le sette stelle sono gli angeli delle sette chiese, e i sette candelabri sono le sette chiese”.
Chi sono “gli angeli” simboleggiati dalle “sette stelle”? Diversi commentatori sostengono che si tratti dei vescovi a capo delle comunità. Il che apparirebbe strano, perché altrove i sorveglianti o vescovi non sono mai chiamati angeli. Chi sono allora questi angeli? Sono angeli, appunto. Secondo una certa interpretazione di Mt 18:10, molte persone religiose pensavo che ogni persona abbia un suo angelo custode. Se questa fantasiosa idea fosse vera, occorrerebbe dire che questi presunti custodi angelici sarebbero dei lavativi che non fanno il loro dovere, viste tutte le disgrazie che capitano alle persone. Occorre invece tener conto di ciò che la Scrittura afferma in Eb 1:14, in cui è detto che gli angeli sono “tutti spiriti al servizio di Dio, mandati a servire in favore di quelli che devono ereditare la salvezza”. Si tratta quindi di angeli che assistono spiritualmente le sette comunità. Indirizzare i messaggi agli angeli delle comunità significa farli pervenire a quelle comunità: “Giovanni, alle sette chiese”, “Mandalo alle sette chiese” (Ap 1:4,11); va infatti ricordato che la parola greca ἄγγελος significa “messaggero”. Yeshùa ha in pugno la costellazione delle sette stelle, simbolo del suo potere, ma nel contempo queste sette stelle sono in realtà angeli delle comunità, messaggeri a cui è affidato il messaggio indirizzato a quelle comunità. Non si dimentichi che siamo di fronte a una visione ricca di simboli.
Abbiamo già osservato (cfr. lo studio Struttura e contenuto di Apocalisse) che il numero 7 è frequentissimo in Ap, tanto che il settenario né è il principio coordinatore. È ora il caso di vedere più da vicino la simbologia di questo numero.
Il numero 7
In Ap troviamo diversi numeri simboli, il più usato del quali è il 7. Nella religione astrale della Babilonia le sette stelle erano ritenute divinità da adorare e che reggevano l’intero cosmo, così che il 7 venne a contrassegnare l’universo. Tale simbolo entrò nel pensiero ebraico, ma con ben altro significato: indicava la perfezione e la totalità del dominio di Dio.
La metà di 7
La metà di 7 – ovvero 3,5 – viene utilizzata nella Scrittura per indicare un periodo breve e limitato.
- “Quarantadue mesi” (Ap 11:2;13:5): 12 mesi x 3 = 36 mesi = 3 anni; 6 mesi rimanenti = ½ anno; totale: 3 anni e mezzo.
- “Milleduecentosessanta giorni” (Ap 11:3): 360 giorni x 3 anni e mezzo = 1260 giorni. I mesi lunari durano 29,5 giorni, arrotondati a 30 nel computo, per cui 1 anno = 12 mesi x 30 giorni = 360 giorni.
- “Un tempo, dei tempi e la metà di un tempo” (Ap 12:14): 3 anni e mezzo.