Il rito della circoncisione di Yeshùa è descritto nella Bibbia in modo assai sobrio. È più per riferire l’imposizione del nome che per il rito in se stesso: “Quando furono compiuti gli otto giorni dopo i quali egli doveva essere circonciso, gli fu messo il nome di Gesù, che gli era stato dato dall’angelo prima che egli fosse concepito” (Lc 2:21). Dato che Luca fu legato a Paolo, sembra che in questo passo si possa scorgere l’eco della mentalità paolina contraria alla circoncisione, per cui Luca sorvola sulla circoncisione per insistere sull’impostazione del nome.
Per quale motivo era stata istituita la circoncisione ossia il taglio del prepuzio maschile? La ragione igienica non va esclusa (la circoncisione viene tuttora usualmente praticata negli Stati Uniti), ma va ritenuta secondaria. La sua applicazione ha origini molto remote ed era praticata da interi popoli semiti (anche dagli egizi e dagli etiopi). A tuttora è praticata da musulmani e da alcune tribù dell’Australia. Nei tempi primitivi era applicata all’età della prima pubertà. Presso quei popoli antichi pare sia consistita in un rito per consacrare la facoltà generativa e per poter trasmettere la vita. I molti amuleti trovati negli scavi documentano che la fecondità era ritenuta molto importante dai popoli antichi. Questa pratica, già in uso presso altri popoli, assunse presso gli ebrei – fin dall’inizio – un significato nuovo: significava l’appartenenza al popolo di Dio, quel popolo con cui l’Eterno aveva stabilito la sua alleanza. “Io [Dio] stabilirò il mio patto fra me e te [Abramo; chiamato poi Abraamo]” (Gn 17:2); “L’ottavo giorno il bambino sarà circonciso” (Lv 12:3). Imposta da Dio ad Abraamo, la circoncisione doveva essere applicata a tutti, schiavi compresi:
“Dio disse ad Abraamo: ‘Quanto a te, tu osserverai il mio patto: tu e la tua discendenza dopo di te, di generazione in generazione. Questo è il mio patto che voi osserverete, patto fra me e voi e la tua discendenza dopo di te: ogni maschio tra di voi sia circonciso. Sarete circoncisi; questo sarà un segno del patto fra me e voi. All’età di otto giorni, ogni maschio sarà circonciso tra di voi, di generazione in generazione: tanto quello nato in casa, quanto quello comprato con denaro da qualunque straniero e che non sia della tua discendenza. Quello nato in casa tua e quello comprato con denaro dovrà essere circonciso; il mio patto nella vostra carne sarà un patto perenne. L’incirconciso, il maschio che non sarà stato circonciso nella carne del suo prepuzio, sarà tolto via dalla sua gente: egli avrà violato il mio patto’”. – Gn 17:9-14.
Il popolo ebraico uscito all’Egitto, prima di insediarsi nella terra promessa, attuò una circoncisione generale per tutti coloro che l’avevano trascurata in Egitto o nel deserto: “In quel tempo il Signore disse a Giosuè: ‘Fatti dei coltelli di pietra, e torna di nuovo a circoncidere i figli d’Israele’. E Giosuè si fece dei coltelli di pietra e circoncise i figli d’Israele sul colle d’Aralot. Questo fu il motivo per cui li circoncise: tutti i maschi del popolo uscito dall’Egitto, cioè tutti gli uomini di guerra, erano morti nel deserto durante il viaggio dopo essere usciti dall’Egitto. Tutto il popolo uscito dall’Egitto era circonciso, ma tutto il popolo nato nel deserto durante il viaggio, dopo l’uscita dall’Egitto, non era stato circonciso. Infatti i figli d’Israele avevano camminato per quarant’anni nel deserto, finché tutta la nazione, cioè tutti gli uomini di guerra che erano usciti dall’Egitto, furono distrutti, perché non avevano ubbidito alla voce del Signore. Il Signore aveva loro giurato che non avrebbe fatto loro vedere il paese che aveva promesso con giuramento ai loro padri di dare a noi: paese dove scorrono il latte e il miele; e sostituì a loro i loro figli. E questi Giosuè circoncise, perché erano incirconcisi, non essendo stati circoncisi durante il viaggio. Quando tutta la nazione fu circoncisa, quelli rimasero al loro posto nell’accampamento, finché fossero guariti. Allora il Signore disse a Giosuè: Oggi vi ho tolto di dosso l’infamia d’Egitto” (Gs 5:2-9). Specialmente nelle persone adulte provocava disturbi fisici con dolore e febbre, specialmente al terzo giorno (Gn 34:25). La Legge richiedeva che anche i forestieri fossero circoncisi prima di poter mangiare la Pasqua. – Es 12:43-48.
La circoncisione doveva essere fatta nell’ottavo giorno dalla nascita del maschio e consisteva nell’amputazione, mediante un coltello di pietra, del prepuzio (la cute che ricopre l’estremità del pene) infantile. Tale cerimonia aveva il sopravvento anche sul riposo sabbatico: “Mosè vi ha dato la circoncisione (non che venga da Mosè, ma viene dai padri); e voi circoncidete l’uomo in giorno di sabato” (Gv 7:22). Oggi la scienza medica ha scoperto che l’ottavo giorno è quello più adatto alla circoncisione: “Ad un esame delle determinazioni delle quantità di vitamina K e di protrombina [. . .] il miglior giorno per compiere la circoncisione è l’ottavo giorno [. . .] [il giorno] scelto dal creatore della vitamina K” (McMillen, Nessuna malattia, Napoli, 1976, trad. di Giulio Montagna, pag 33). Infatti, normali quantità della vitamina K (sostanza coagulante) non sono presenti nel sangue che a partire dal quinto/settimo giorno dopo la nascita; e un’altra sostanza coagulante (la protrombina) è presente il terzo giorno solo in quantità pari al 30 per cento del normale, mentre l’ottavo giorno è presente in quantità più elevata che in qualsiasi altro momento della vita del bambino (fino al 110 per cento del normale). Nell’ottavo giorno si poteva evitare dunque il pericolo di emorragie.
L’uso di un coltello di pietra (Es 4:25) indica che l’origine della circoncisione era iniziato nell’età della pietra, quando la selce era l’unico mezzo tagliente che si possedeva.
Il padre (o, in caso di sua morte, la madre) compiva di persona la cerimonia mediante un taglio circolare: da qui il nome italiano (latino circum, “intorno”; latino incidere). In greco è περιτομὴ (peritomè) e ha lo stesso significato (περί, perì, “attorno”). In ebraico è מּוּלֹה (mulà).
Il rito era accompagnato da una preghiera documentata dalla letteratura ebraica antica e che ancor oggi gli ebrei recitano: “Benedetto sii tu, Signore nostro Dio e re del mondo, che ci hai santificato con i tuoi precetti e ci hai dato il patto della circoncisione”. Gli astanti rispondevano “amèn” (אָמֵן). Seguiva poi un pranzo solenne per festeggiare; due sedie avevano il posto di onore: una per il padrino e una vuota per Elia (ritenuto spiritualmente presente).
Con il profeta Geremia viene ribadito che la circoncisione è solo un gesto materiale e privo di significato spirituale se l’uomo, divenuto maturo, non vivifica tale rito con una sincera ricerca di Dio e con la fedeltà interiore alla Legge di Dio. Questa condotta è ciò che il profeta, con una frase molto felice, chiama “la circoncisione del cuore”, richiamandosi così al concetto fondamentale della circoncisione come consacrazione a Dio: “Circoncidetevi per il Signore, circoncidete i vostri cuori, uomini di Giuda e abitanti di Gerusalemme, affinché il mio furore non scoppi come un fuoco, e non s’infiammi al punto che nessuno possa spegnerlo, a causa della malvagità delle vostre azioni!”. – Ger 4:4.
Paolo, con un passo ulteriore, contro la tendenza dei giudei divenuti discepoli di Yeshùa, insegnò che il rito esterno a nulla vale, perché quello che più conta è l’osservanza del volere divino. Invece della circoncisione (appartenente alla legge cerimoniale abolita con il sacerdozio perpetuo di Yeshùa) il rito di ammissione nella congregazione del popolo di Dio è ora il battesimo, consistente nell’immersione totale in acqua, vivificata dalla fede in Yeshùa. Per mezzo suo il credente, in virtù del sangue di Yeshùa, entra a far parte del popolo di Dio nella nuova alleanza. Di più, mentre la circoncisione si attua solo sui maschi di otto giorni, il battesimo (dovendo essere vivificato dalla fede) va amministrato a uomini e donne adulti. “Se l’incirconciso osserva le prescrizioni della legge, la sua incirconcisione non sarà considerata come circoncisione? Così colui che è per natura incirconciso, se adempie la legge, giudicherà te, che con la lettera e la circoncisione sei un trasgressore della legge. Giudeo infatti non è colui che è tale all’esterno; e la circoncisione non è quella esterna, nella carne; ma Giudeo è colui che lo è interiormente; e la circoncisione è quella del cuore, nello spirito, non nella lettera; di un tale Giudeo la lode proviene non dagli uomini, ma da Dio”. – Rm 2:26-29.
L’imposizione del nome. Noi oggi non abbiamo la concezione che i semiti attribuivano al nome, perciò spesso non afferriamo bene il valore preciso di certe espressioni bibliche. Per noi occidentali il nome serve solo a identificare una persona presso l’anagrafe civile, ma per gli ebrei e per la Bibbia era qualcosa di ben più importante. Il nome per gli ebrei presentava l’essenza stessa della persona, la sua natura, la sua forza, la sua attività.
Per la Bibbia, chi non ha un nome non esiste. Questo concetto ripreso dalla Scrittura era presente presso i popoli semiti. È interessante al riguardo fare un confronto tra il secondo racconto della creazione e le relazioni sumere antiche. Mentre la Bibbia dice: “Non c’era ancora sulla terra alcun arbusto della campagna. Nessuna erba della campagna era ancora spuntata” (Gn 2:5), gli antichi testi sumeri dicono la stessa cosa affermando che animali e piante non erano ancora “stati nominati”. Dio dal primo capitolo di Genesi fa venire all’esistenza il creato pronunciando il nome dei suoi molteplici elementi: “Dio disse: ‘Sia luce!’ E luce fu” (1:3); “Poi Dio disse: ‘Vi sia […]’” (v. 6); e così via. Anche Giobbe, per indicare la massima abiezione della plebaglia afferma: “Gente da nulla, razza senza nome [vale a dire inesistente], cacciata via dal paese a bastonate” (Gb 30:8). La punizione divina degli empi è espressa dicendo che il loro nome (vale a dire la loro discendenza) che conserva il nome paterno sarà eliminato: “Tu hai rimproverato le nazioni, hai fatto perire l’empio, hai cancellato il loro nome per sempre” (Sl 9:5); ma il giusto sussisterà per sempre, avrà la vita da Dio: “Chi vince sarà dunque vestito di vesti bianche, e io non cancellerò il suo nome dal libro della vita, ma confesserò il suo nome davanti al Padre mio e davanti ai suoi angeli”. – Ap 3:5.
Per la Bibbia, conoscere il nome di qualcuno è conoscerne la natura, è avere un certo dominio su di lui partecipando alla sua potenza. In Mesopotamia e in Egitto (terre pagane) il nome era strettamente associato all’esercizio della magia: conoscere il nome di Dio era disporre in qualche modo della sua potenza divina. Per questo motivo (per non dare adito a pratiche magiche vietate dalla Scrittura) presso Israele gli esseri soprannaturali hanno una certa riluttanza a comunicare il loro nome quando non è necessario: “La donna andò a dire a suo marito: ‘Un uomo di Dio è venuto da me; aveva l’aspetto di un angelo di Dio: un aspetto davvero tremendo. Io non gli ho domandato da dove veniva, ed egli non mi ha detto il suo nome’” (Gdc 13:6). Nel famoso passo di Es in cui Mosè domanda il nome a colui che gli parla dal roveto ardente, questi anziché rivelargli il nome rifiuta dapprima di manifestarglielo. Il passo non va inteso nel senso di ‘Io sono colui che è’, ma nel senso di ‘Io sono chi sono’ ovvero: Non ti deve interessare il mio nome, io sono chi sono. Le traduzioni non rendono bene la sfumatura: “Mosè disse a Dio: ‘Ecco, quando sarò andato dai figli d’Israele e avrò detto loro: Il Dio dei vostri padri mi ha mandato da voi, se essi dicono: Qual è il suo nome?, che cosa risponderò loro?’ Dio disse a Mosè: ‘Io sono colui che sono’” (Es 3:13,14). La TNM traduce: “IO MOSTRERÒ D’ESSERE CIÒ CHE MOSTRERÒ D’ESSERE”, e la nota il calce recita: “Ebr. אהיה אשר אהיה (´Ehyèh ´Ashèr ´Ehyèh), l’espressione con cui Dio chiama se stesso; Leeser: “IO SARÒ QUEL CHE SARÒ”; Rotherham: “Io diverrò qualunque cosa mi piaccia”. Gr. Egò eimi ho on, “Io sono L’Essere”, o “Io sono Colui che esiste”; lat. ego sum qui sum, “Io sono colui che sono”. ´Ehyèh deriva dal verbo ebr. hayàh, “divenire; mostrar d’essere”. Qui ´Ehyèh è all’imperfetto, prima persona sing., e significa “Io diverrò”, o “Io mostrerò d’essere”. Qui non si fa riferimento all’autoesistenza di Dio, ma a ciò che egli ha in mente di divenire nei confronti di altri. Cfr. nt. a Ge 2:4, “Geova”, dove un verbo ebr. affine, ma diverso, hawàh, compare nel nome divino” (il tutto maiscolo è nel testo originale). È senz’altro molto rincuorante immaginare che Dio dica che sarà o diverrà quello di cui abbiamo bisogno (Hai bisogno di un padre? Sarò padre. Hai bisogno di un amico? Sarò amico. E così via). Tuttavia, pur mostrando all’uomo amore infinito, Dio rimane Dio, e la spiegazione indicata da TNM non è biblica. Non è Dio che deve diventare ciò che noi vorremmo, ma siamo noi che dobbiamo diventare come Dio vuole che siamo. Inoltre, nel testo il soggetto e l’argomento è il nome di Dio, non il suo modo di agire. Infine, non è affatto vero che la risposta di Dio a Mosè sia “l’espressione con cui Dio chiama se stesso”. La risposta di Dio a Mosè è quello che è: la risposta di Dio alla domanda precisa di Mosè. Come dire: ‘Perché mi domandi il nome? Io sono chi sono’. O, per essere più chiari: ‘Perché mi domandi il nome? Che t’interessa? Io sono chi sono! Tu va dal faraone e parlagli a mio nome’. Che questa sia l’interpretazione giusta è evidente dal fatto che poi il nome viene cambiato: a Mosè Dio dice “Io sono quel che sono”, ma al faraone Mosè dovrà dire: “Colui che è quel che è” (יהוה, YHVH). Ora i nomi rimangono tali quali sono e non si modificano dalla prima alla terza persona. Si rammenti che nell’ambiente egiziano in cui Mosè avrebbe dovuto parlare, conoscere il nome divino era come possedere una potenza magica. Perciò proprio il faraone (che avrebbe chiesto il nome di Dio a tale scopo) non lo doveva sapere. Anche Yeshùa, che avrà la potenza di Dio per portare l’universo sotto la sovranità di Dio, ha un nome particolare che nessuno può conoscere:
“Vidi il cielo aperto, ed ecco un cavallo bianco; colui che lo cavalcava si chiamava Fedele e Verace:
egli giudica e combatte con giustizia.
I suoi occhi sono come una fiamma di fuoco, ha sul suo capo molti diademi;
porta scritto un nome che nessuno conosce all’infuori di lui”. – Riv 19:11,12.
Nella Bibbia il nome agisce come se avesse una forza propria, può stare a sé come sinonimo della persona. Geremia, ripetendo due volte (secondo il parallelismo poetico) lo stesso concetto, parla prima di Dio e poi del suo nome: “Tu stesso sei in mezzo a noi, o Geova [Yhvh nel testo ebraico], e su di noi è stato invocato il tuo proprio nome” (Ger 14:9, TNM). Chi conosce il “nome” di Dio, ovvero Dio stesso, deve avere fiducia in lui poiché Dio non lo può abbandonare: “Confidino in te quanti conoscono il tuo nome, perché non abbandoni chi ti cerca, Signore”. – Sl 9:11, TNM.
In Israele il culto del nome di Dio è andato via via sempre più sviluppandosi, sia presso il rabbinismo che presso la prima congregazione dei discepoli di Yeshùa. Il nome diviene una specie di ipostasi (la sostanza che sta sotto i fenomeni), analogo alla spirito santo di Dio e alla sapienza di Dio. Israele conosce il nome di Dio e lo porta, a benedizione e a protezione: “Lo salverò, perché a me si è affidato; lo esalterò, perché ha conosciuto il mio nome” (Sl 90:14). Israele celebra la gloria del nome di Dio nel tempio: “Alzatevi e benedite il Signore vostro Dio ora e sempre! Si benedica il tuo nome glorioso che è esaltato al di sopra di ogni benedizione e di ogni lode!” (Nee 9:5). Israele deve manifestare questo nome ai pagani che ancora lo ignorano: “Riversa il tuo sdegno sui popoli che non ti riconoscono e sui regni che non invocano il tuo nome” (Sl 78:6); “Copri di vergogna i loro volti perché cerchino il tuo nome, Signore” (Sl 82:17); “I popoli temeranno il nome del Signore e tutti i re della terra la tua gloria” (Sl 101:16); “Lodate il Signore e invocate il suo nome, proclamate tra i popoli le sue opere” (Sl 104:1). Il libro di Malachia sviluppa questi temi: “Se non mi ascolterete e non vi prenderete a cuore di dar gloria al mio nome, dice il Signore degli eserciti, manderò su di voi la maledizione e cambierò in maledizione le vostre benedizioni. Anzi le ho già maledette, perché nessuno tra di voi se la prende a cuore” (2:2): “Allora parlarono tra di loro i timorati di Dio. Il Signore porse l’orecchio e li ascoltò: un libro di memorie fu scritto davanti a lui per coloro che lo temono e che onorano il suo nome […] Per voi invece, cultori del mio nome, sorgerà il sole di giustizia con raggi benefici (3:16,20). Ancora oggi i rabbini e gli ebrei devoti al posto di “Dio” dicono “Il Nome” (השם, hashèm).
Nella cultura biblica pronunciare il nome di una persona significa acquistarne la protezione. Perché la benedizione sacerdotale avesse effetto, doveva esserlo nel nome di Dio, altrimenti sarebbe stata nulla. Il sacerdote non aveva alcun potere, è Dio che benedice (dona cioè del bene). Pronunciando del bene (dire del bene, benedire) esso si compie in virtù della potenza del nome divino:
Ti benedica il Signore
e ti protegga. Il Signore faccia brillare il suo volto su di te
e ti sia propizio. Il Signore rivolga su di te il suo volto
e ti conceda pace. Così porranno il mio nome sugli Israeliti
e io li benedirò”. – Nm 6:24-27.
Il salmista afferma: “Il nostro aiuto è nel nome del Signore” (Sl 127:8). Quando la mortalità infuria per l’ira divina, non si osa neppure pronunciare il nome divino: “Quegli dirà: ‘Zitto!’: non si deve menzionare il nome del Signore”. – Am 6:10.
Anche gli apostoli quando cacciano i demòni e guariscono le malattie, lo fanno nel nome di Yeshùa (At 3:6). Yeshùa, in virtù della sua ubbidienza, ha ricevuto “il nome che è al di sopra di ogni altro nome” (Flp 2:9), come dire: Yeshùa è stato esaltato al di sopra di tutte le creature. È per questo che egli ha una potenza che si estende a tutto l’universo, descritto nelle sue tre parti cosmiche: uomini (terra), angeli (cielo), demòni e morti (sottoterra). Tutti quindi si prostrano davanti a lui in segno di omaggio:
“Nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra;
e ogni lingua proclami che
Gesù Cristo è il Signore,
a gloria di Dio Padre”. – Flp 2:10,11.
Ecco il nome potente che gli dà tutta l’autorità che Dio stesso gli delega: con la resurrezione egli è divenuto Signore:
“Un nome porta scritto sul mantello e sul femore:
Re dei re e Signore dei signori”. – Ap 19:16.
Yeshùa è, dopo Dio, il più alto in grado: è re dei re.
Nella Bibbia il nome è anche segno di appartenenza a qualcuno. Avere il nome da qualcuno è essere a lui sottoposto, appartenergli. Uno appartiene a chi gli impone il nome. Chi conquista una città sente pronunciare il suo nome dagli abitanti, che perciò appartengono a lui. Ioab, prima di espugnare una città, manda a dire a Davide: “Raduna il resto del popolo, accàmpati contro la città e prendila, altrimenti se la prendo io, porterebbe il mio nome” (2Sam 12:28). Per indicare il dominio assoluto del sovrano sopra il re di Giuda vinto, il faraone Necao gli cambia il nome in Ioiakìm: “Il faraone Necao nominò re Eliakìm figlio di Giosia, al posto di Giosia suo padre, cambiandogli il nome in Ioiakìm” (2Re 23:34). La gente pagana e straniera nel tempo messianico sarà aggregata alla fede giudaica mediante il nome: “Questi dirà: Io appartengo al Signore, quegli si chiamerà Giacobbe; altri scriverà sulla mano: Del Signore, e verrà designato con il nome di Israele” (Is 44:5). Anche il discepolo di Yeshùa porta un nome nuovo: Pietro spiega che sebbene i non credenti chiamino i discepoli con l’appellativo denigratorio di “cristiano”, tuttavia dietro questo appellativo c’è il nome del cristo o consacrato di Dio: “Se uno soffre come cristiano, non ne arrossisca; glorifichi anzi Dio per questo nome” (1Pt 4:16). Il discepolo non appartiene più a sé, ma al Cristo; non intende più seguire la propria volontà, ma quella del Cristo.
Presso gli ebrei il nome era imposto a un bimbo durante la sua circoncisione, per cui anche Yeshùa fu allora chiamato con il nome impostogli da Dio. Il nome di Yeshùa indicava la sua natura: essere cioè lo strumento scelto da Dio per salvare l’umanità. Yeshùa indica appunto che “Ya salva” ovvero “Dio salva”. Il suo nome imposto, essendo stato dato da Dio mediante un angelo, significava che Yeshùa non apparteneva a se stesso, ma a Dio. È per questo che il suo “cibo” era quello di compiere la volontà di Dio (Gv 4:34). Essendo il suo nome un nome divino di salvezza, aveva una potenza straordinaria che si sarebbe palesata in modo particolare dopo la sua resurrezione e la sua gloriosa assunzione al cielo, dove ora siede alla destra di Dio.
Alla luce del profondo significato che i nomi hanno nella Scrittura, si vede quanto poco e male i Testimoni di Geova abbiano compreso della Bibbia, insistendo sulla conoscenza del nome di Dio intesa letteralmente, anagraficamente, e in maniera occidentale, cosa lontanissima e del tutto estranea alla Scrittura.