Nel suo vasto pellegrinare, Yeshùa venne una volta in contatto con una donna pagana.
Yeshùa e il gruppo dei suoi discepoli “vennero nel paese di Gennesaret” (Mt 14:34), una piccola pianura molto fertile che confinava con la riva nordoccidentale del Mar di Galilea (detto anche Lago di Gennesaret o Mare di Kinneret).
Yeshùa poi “andò nelle regioni di Tiro e Sidone (in Fenicia, l’odierno Libano). “Entrato in una casa non voleva che alcuno lo sapesse. Ma non poté passare inosservato” (Mr 7:24, TNM). Si trovava dunque in pieno territorio pagano, al di fuori di Israele. Riguardo a quelle due città di Tiro e Sidone, egli stesso aveva detto che esse erano meno colpevoli delle città della Galilea in cui pure aveva compiuto molti miracoli (Mt 11:21,22). Erano comunque territori abitati da pagani che, secondo gli ebrei, non avevano diritto alle benedizioni divine. Per usare le parole dell’ebreo Paolo, erano “esclusi dalla cittadinanza d’Israele ed estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio nel mondo”. – Ef 2:12.
Normalmente Yeshùa non si muoveva molto fuori dai confini di Israele. I suoi contatti con il mondo pagano furono sporadici. Il segreto di quei pochi pagani che ottennero da lui qualcosa fu solo uno: la loro fede. Nella Bibbia i pagani sono paragonati ai cani (Sl 22:16,20;59:6,14) e i cani sono animali impuri. – Lv 11:27; Is 66:3.
Yeshùa stesso si atteneva a questo modo di pensare: “Non date ciò che è santo ai cani” (Mt 7:6, TNM). Nell’incontro con la donna fenicia userà indirettamente questo stesso termine anche con lei, pur addolcendolo col termine “cagnolini”.
Yeshùa non andava in missione direttamente dai pagani. La sua dichiarazione era stata chiara: “Io non sono stato mandato se non alle pecore smarrite della casa d’Israele” (Mt 15:24). E ai suoi discepoli aveva dato istruzioni precise: “Non andate tra i pagani”. – Mt 10:5.
Ora Yeshùa si trova tra pagani. Ed è una pagana che si rivolge a lui: “La donna era greca, di nazionalità siro-fenicia” (Mr 7:26, TNM). Nella Scrittura “greco” sta per “pagano”. Dopo la morte di Yeshùa, quando la salvezza è offerta a tutte le persone del mondo, Paolo dirà: “Poiché non c’è distinzione tra Giudeo e Greco” (Rm 10:12) ovvero tra ebrei e pagani. Il passo parallelo di Mt 15:22 parla di “una donna fenicia”, e alcuni manoscritti hanno “cananea”. Sono modi diversi di designarne la nazionalità. Comunque, come traduce la NR, “quella donna era pagana”. – Mr 7:26.
Ed ecco l’incontro (lasciatoci da Mt 15:21-28) nella piacevole traduzione di TILC:
“Poi Gesù andò via di là e si ritirò dalle parti di Tiro e Sidone. Una donna pagana che veniva da quella regione si presentò a Gesù gridando:
– Signore, figlio di Davide, abbi pietà di me! Mia figlia sta molto male, uno spirito maligno la tormenta.
Ma Gesù non rispondeva nulla. Si avvicinarono allora i suoi discepoli e gli dissero:
– Mandala a casa, perché continua a venirci dietro e a gridare.
Gesù disse:
– Io sono stato mandato solo per le pecore sperdute del popolo d’Israele.
Ma quella donna si metteva davanti a lui in ginocchio e diceva:
– Signore, aiutami!
Allora Gesù rispose:
– Non è giusto prendere il pane dei figli e buttarlo ai cagnolini.
E la donna disse:
– È vero, Signore. Però, sotto la tavola, i cagnolini possono mangiare le briciole che cadono ai loro padroni.
Allora Gesù disse:
– O donna, davvero la tua fede è grande! Accada come vuoi tu.
E in quel momento la figlia guarì.”
In questo avvenimento tutto è intenso, concitato. Tutto avviene a parole, con le sole parole. Non ci sono azioni. Tutto accade in un botta-risposta intelligentissimo. È una battaglia decisa, tutta e solo verbale, che la donna pagana ingaggia con Yeshùa. E che la donna vince.
All’inizio pare che questa poveretta sia capace solo di gridare (per rimanere nell’ambito dei pagani considerati come cani, il suo si direbbe quasi un latrare). Il verbo usato per dire che gridava è ἔκραζεν (èkrazen) e ha il significato di gracchiare, stridere. Eppure, il suo gridare pare pregnante di suggestioni liturgiche: elèesòn me, kΰrie (Ἐλέησόν με, κύριε), “abbi pietà di me, Signore!” Lei non mette subito davanti la richiesta di un miracolo: chiede compassione, vuole la pietà di Yeshùa.
Molto interessanti sono i tratti psicologici delle persone presenti – molto diversi tra loro – che compaiono ora e che si manifestano negli atteggiamenti.
Yeshùa resta calmo. Sta in silenzio. Si direbbe che rimane imperterrito. “Egli non le rispose parola”. La ignora semplicemente. Continua per la sua strada. Così sembrerebbe.
I discepoli hanno invece delle reazioni, e anche forti. Sono reazioni di fastidio: “Continua a venirci dietro e a gridare”. Probabilmente interpretano il silenzio di Yeshùa come disprezzo (non era stato forse lui stesso a dir loro che non dovevano trattare con i pagani? – Mt 10:5). Ma sono anche un po’ vili: non dicono nulla alla donna, ma si avvicinano a Yeshùa e gli dicono: “Mandala a casa”. E la motivazione che adducono dice tutta la loro insensibilità in quella occasione: “Perché continua a venirci dietro e a gridare”. È già un fastidio averla dietro, ma quel gridare, poi … Già, perché lei èkrazen, gracchiava, strideva.
Quello di Yeshùa non è però disprezzo. Non è insensibile, tanto che si sente in dovere di motivare il suo atteggiamento di apparente noncuranza: “Io non sono stato mandato se non alle pecore smarrite di Israele”. Mentre i discepoli in pratica gli stanno dicendo: ‘Toglici dai piedi questa scocciatrice’, Yeshùa rimane prima in silenzio e poi con calma spiega perché non può intervenire.
La donna si rivela ora una donna molto decisa. Non bada neppure per un momento alla reazione infastidita dei discepoli e non si cura neppure di quello che dicono di lei al maestro. Ignorandoli del tutto, la sua attenzione si fissa ancora di più su Yeshùa. Anzi, gli sbarra la strada: “Si metteva davanti a lui in ginocchio”. E il suo appello è ancora più accorato: “Signore, aiutami!”. Yeshùa le ha appena detto che non avrebbe fatto nulla per lei: lei non appartiene al popolo di Israele. Per tutta risposta lei lo costringe a fermarsi, a interrompere il suo cammino: è a terra davanti a lui, in ginocchio, e lo supplica. Per Yeshùa deve essere stato molto difficile sostenere lo sguardo di lei, guardare quegli occhi imploranti pieni di lacrime e di sofferenza vera. “Signore, aiutami!”. “Aiutami!”. Lei non si cura più di nulla, non si cura delle barriere tra sacro e profano, tra santi e pagani. C’è solo lei con la sua sofferenza e Yeshùa davanti a lei. Ed è al cuore di Yeshùa che lei vuole arrivare, umanamente: “Aiutami!”.
Yeshùa non rimane più in silenzio: il suo silenzio lo ha già rotto poco prima; perfino il suo cammino è già stato interrotto. Pare ancora distaccato, ma intanto parla di nuovo. E parla a lei, direttamente a lei che poco alla volta conquista un pochino di spazio; poco, ancora troppo poco, ma quel pochino è un suo avanzare che corrisponde ad un arretrare di Yeshùa. Yeshùa pare ancora fermo sulla sua posizione, ma è una posizione più morbida. Le parla e le dà spiegazioni in modo garbato: “Non è giusto prendere il pane dei figli e buttarlo ai cagnolini”. Non la mette direttamente tra i “cani”, parla in modo generico e usa il diminutivo “cagnolini”, ma l’allusione è a lei.
La donna non si offende neppure per un attimo. Oltre che determinata, ora si rivela abilissima. Non solo non mette in discussione l’affermazione di Yeshùa, non solo gli dà perfino ragione, ma volge la stessa argomentazione di Yeshùa a proprio favore. Non si arrende e non è toccata da nessuna incertezza. La sua replica è pronta e immediata: “È vero, Signore. Però …”. Ecco, lei ha preso Yeshùa in parola. Sì, accetta di essere messa tra i cani, “però …”. Ora non si tratta più di pane riservato ai figli da buttare ai cani. Lei, che è mamma, non vuol certo togliere il pane dalla bocca dei figli. Ora si tratta di briciole. Se lei è un cagnolino – e lo accetta – come si può negarle di raccogliere le briciole che andrebbero perse? Non si tratta neppure di briciole che devono essere tolte dal pane dei figli: si tratta di “briciole che cadono”. Come un cagnolino “sotto la tavola”, si accontenta di avere quelle poche “briciole che cadono ai loro padroni”. È giusto per lei non prendere il pane dei figli per darlo ai cani, ma chi è così crudele da impedire che i cagnolini mangino quelle poche briciole cadute dalla tavola?
Yeshùa ha perso. Ed è felice di aver perso: “O donna, davvero la tua fede è grande!”. Yeshùa non teme di manifestare il proprio stupore e neppure la sua ammirazione. Nel passo parallelo di Mr 7:29 (TNM) Yeshùa dice: “Poiché hai detto questo”… In quella battaglia fatta tutta a parole la donna ha espresso con poche parole tutta la sua fede in Yeshùa.
“Accada come tu vuoi”: questa la resa di Yeshùa alla fede di lei. E il cuore si colma di commossa gratitudine. Yeshùa, che aveva insegnato a pregare Dio dicendo “sia fatta la tua volontà”, qui dice lui alla donna: “Accada come tu vuoi”. Nella massima preghiera che gli ebrei rivolgono a Dio (lo shemà – Dt 6:4), non è forse Dio stesso che si rivolge all’uomo? “Ascolta, Israele”.
“La donna tornò a casa e trovò sua figlia sdraiata sul letto: lo spirito maligno se n’era andato”. – Mr 7:30, PdS.