Giustino, nel suo Dialogo contro Trifone (41 EP 135), spiega che il popolo stesso portava alla celebrazione della cena del Signore il pane comune di tutti i giorni e il vino. Quest’uso del pane comune (lievitato) portato dai fedeli cessò nel 7° secolo perché i monaci si incaricarono di prepararlo essi stessi: nacque in tal modo l’ostia azzima come noi la conosciamo oggi. A partire dal 9° secolo tale uso si diffuse in tutta Europa. In oriente, invece, si continuò a usare pane lievitato. Gli ortodossi usano, fino al presente 21° secolo, pane lievitato e vino.
Il pane azzimo, sotto forma di ostia, fu quindi introdotto solo nel 7° secolo per ragioni pratiche e igieniche. Solo più tardi – a posteriori – si trovarono motivazioni teologiche sul significato dell’assenza di lievito quale simbolo di assenza di peccato. Si tratta tuttavia di un’idea strana che è del tutto estranea alla Scrittura.
Nella Pasqua ebraica si doveva consumare pane azzimo. Tuttavia questo pane azzimo non aveva nulla a che fare con il simbolismo di assenza di peccato. La motivazione dell’uso del pane azzimo ci viene fornita dalla Bibbia stessa molto chiaramente. Nella fretta dell’uscita dall’Egitto, gli ebrei “cuocevano la pasta che avevano portato dall’Egitto in focacce rotonde, focacce non fermentate, poiché non era lievitata, in quanto erano stati cacciati dall’Egitto e non si erano potuti indugiare” (Es 12:39, TNM). Il motivo era la fretta: “Geova vi ha condotti fuori di qui con la forza della mano. Non si mangi dunque nulla di lievitato” (Es 13:3, TNM). Dio li aveva come strappati dalla schiavitù (“con la forza della mano”), “dunque” dovevano ricordare quella frettolosa liberazione con il simbolo del pane che non aveva avuto il tempo di lievitare, data la fretta: “Non devi mangiare con essa nulla di lievitato, per sette giorni. Devi mangiare con essa pani non fermentati, il pane d’afflizione, perché fu in fretta che uscisti dal paese d’Egitto, affinché ti ricordi del giorno della tua uscita dal paese d’Egitto per tutti i giorni della tua vita” (Dt 16:3, TNM). Il peccato, quindi, non c’entra; il simbolismo aveva a che fare con la frettolosità dell’uscita.
Ma che dire allora delle parole di Paolo? Egli dice: “Osserviamo la festa [la Pasqua] non con vecchio lievito, né con lievito di malizia e malvagità, ma con pani non fermentati di sincerità e verità” (1Cor 5:8). Occorre esaminare il contesto, specificando però che qui Paolo non sta affatto parlando della Cena del Signore ma della Pasqua. Paolo sta parlando ai corinti e li rimprovera: “Fra voi c’è fornicazione, e fornicazione tale che non esiste neanche fra le nazioni” (v. 1); e non tace neppure la loro grave colpa: “Un certo [uomo] ha la moglie del [proprio] padre” (v. 1). Li riprende perché non hanno fatto nulla ‘affinché l’uomo che ha commesso tale azione sia tolto di mezzo a loro’ (v. 1). Ecco il punto centrale: quell’uomo impenitente era tra loro un elemento pericoloso che avrebbe potuto infettare altri con il suo pessimo esempio. Devono togliere quella persona dalla loro comunità. E qui usa l’immagine del lievito: “Non sapete che un po’ di lievito fa fermentare l’intera massa?” (v. 6). Questa immagine del lievito gli richiama la Pasqua e la Festa dei Pani Azzimi e Paolo applica tutto a loro: “Eliminate il vecchio lievito, affinché siate una nuova massa, secondo che siete liberi da fermento” (v. 7) o, nella versione più chiara della NR, “purificatevi del vecchio lievito, per essere una nuova pasta, come già siete senza lievito”. I corinti sono già puri, già santi, “poiché, in realtà, Cristo, la nostra pasqua, è stato sacrificato” (v. 7). Come dire: tornate a essere ciò che già siete in realtà, rimanete santi, togliete di mezzo a voi quell’elemento infetto; il Cristo ci ha già purificati, “quindi osserviamo la festa non con vecchio lievito, né con lievito di malizia e malvagità, ma con pani non fermentati di sincerità e verità”(v.8). Quella che Paolo usa è un’immagine tratta dalla scena pasquale ma applicata a loro. Paolo non sta dando nuovi significati teologici al lievito. Sta usando quell’immagine applicata al loro caso. È per questo che parla di “lievito di malizia e malvagità” (il problema che avevano) e di “pani non fermentati di sincerità e verità” (non si tratta solo di accettare la verità, ma di viverla con sincerità). Nessun nuovo significato quindi da attribuire al lievito assente dal pane pasquale. Proprio come non ci furono nuovi significati quando Yeshùa disse: “Guardatevi dal lievito dei farisei e dei sadducei”, tanto che correttamente i discepoli “compresero che non diceva di guardarsi dal lievito dei pani, ma dall’insegnamento dei farisei e dei sadducei”. – Mt 16:11,12, TNM.
Richiamarsi dunque alla mancanza di lievito nella Pasqua per sostenere che si voglia significare l’assenza di peccato è insostenibile. Come esaminato con la Bibbia, il simbolo richiamava la fretta nell’uscita dall’Egitto.
Se poi si vuole vedere per forza nel lievito il simbolo del peccato, questo sarebbe del tutto appropriato nel pane della Cena del Signore. Il pane simboleggia infatti il corpo di Yeshùa e Yeshùa stesso “portò i nostri peccati nel proprio corpo, sul palo” (1Pt 2:24, TNM). Dio stesso “lo fece essere peccato per noi”. – 2Cor 5:21, TNM.