Fanciulla – definizione
In italiano la parola “fanciulla” è usata nelle diverse versioni per tradurre ora il termine “vergine”, ora il termine “ragazza”. In Sl 45:10,11, inneggiando alle nozze del re, leggiamo: “Ascolta, fanciulla, guarda e porgi l’orecchio; dimentica il tuo popolo e la casa di tuo padre, e il re s’innamorerà della tua bellezza”. Qui la parola resa “fanciulla” è in ebraico la tenera espressione בַת (bat), “figlia”.
Si veda anche la voce Vergine – definizione.
Fanciulle (בָּנֹות, banòt, “figlie”, che qui assume in significato di “nuore” o – se si preferisce – come nell’inglese daughters-in-law, figlie secondo la legge)
“Fu giudice d’Israele Ibsan di Betlemme, che ebbe trenta figli, fece sposare le sue trenta figlie con gente di fuori, e fece venire da fuori trenta fanciulle per i suoi figli”. – Gdc 12:8,9.
Febe (Φοίβη, Fòibe, “raggiante”)
“Vi raccomando Febe, nostra sorella, che è diaconessa della chiesa di Cencrea, perché la riceviate nel Signore, in modo degno dei santi, e le prestiate assistenza in qualunque cosa ella possa aver bisogno di voi; poiché ella pure ha prestato assistenza a molti e anche a me”. – Rm 16:1,2.
Questa donna era diaconessa nella congregazione di Cencrea, che distava circa 11 km da Corinto, nell’antica Grecia. Salutando i confratelli romani, Paolo nella sua lettera non solo non si dimentica di lei, ma la raccomanda caldamente alla comunità. Per ciò che riguarda il suo incarico di diaconessa, si veda alla voce Diaconessa – definizione. TNM traduce questa parola con “ministro”, probabilmente per evitare che la parola “diacono” venga applicata ad una donna (cosa che la Bibbia fa) e non sappiamo dire se questa manipolazione peggiori le cose per gli editori. L’ovvio intento è quello di evitare che a una donna venga attribuito il diaconato. Così si legge in un testo degli stessi editori di TNM: “Le Scritture non prevedono servitori di ministero donne” (Perspicacia nello Studio delle Sacre Scritture, Vol. 1, pag. 903). La strana dicitura “servitore di ministero” è quella da loro adottata per tradurre la parola greca διάκονος (diàkonos), “diacono”. Così, in 1Tm 3:8 nella loro versione biblica si legge: “I servitori di ministero”; “i diaconi” (NR); qui il testo sacro impiega la parola διάκονος (diàkonos) al plurale. Ora, la Bibbia stessa smentisce l’idea antiscritturale che “le Scritture non prevedono servitori di ministero donne” (Ibidem). Infatti, proprio in Rm 16:1, Paolo applica il termine tecnico διάκονος (diàkonos) ad una donna, Febe. L’atteggiamento maschilista di due pesi e due misure nel tradurre la stessa identica parola διάκονος (diòkonos) per gli uomini “servitore di minisiero” (ovvero diacono) e per le donne “ministro” può ingannare il lettore ignaro della Bibbia, ma non porta lontano. Oltretutto, inconsapevolmente, la traduzione “ministro” pare un’involontaria beffa ironica: in tempi in cui tanto si discute se le donne possano essere o no ministri religiosi, il titolo viene loro attribuito nero su bianco. Comunque, per la Scrittura non ci sono dubbi: Febe era διάκονος (diàkonos), “diaconessa”.
Sebbene la Bibbia non dia altre notizie di Febe, qualcosa possiamo spremere dal testo di Rm 16:1,2 e perfino da quello che non dice (la Bibbia dice anche quando non dice). Non è detto, ad esempio, che nel suo viaggio a Roma fosse accompagnata dal marito: forse era vedova o nubile. Il fatto che potesse viaggiare dalla Grecia a Roma ci fa dedurre che lei stava bene in finanze. Dato che Paolo la raccomanda nella sua lettera ai romani quando lei arriva a Roma, potrebbe essere stata lei stessa la latrice dell’epistola paolina. Il testo biblico (non la sua traduzione) ci dice poi che lei era προστάτις (prostàtis), “protettrice” di molti (che diventa “ha prestato assistenza” in NR e “ha mostrato di difendere” in TNM). Questa parola greca è un sostantivo femminile (numero Strong: G4368) che significa: 1) una donna con incarichi di comando, 2) un guardiano femminile, protettrice, patronessa, che si cura delle cose altrui e li aiuta con le sue risorse. – Vocabolario del Nuovo Testamento.
Femmina – definizione (ebraico: נְקֵבָה, neqevàh; greco: θῆλυ, thèlü; “femmina”)
La femminilità (l’insieme delle caratteristiche fisiche, psichiche e comportamentali della donna, che la distinguono dall’uomo) può essere definita in molteplici modi.
Per E. Levinas il femminile è “trascendenza temporale di un presente verso il mistero dell’avvenire”: egli scrive: “La trascendenza della femminilità consiste nel ritrarsi altrove, movimento opposto al movimento della coscienza, ma non è, per questo, inconscio o sub-conscio, e non vedo altra possibilità se non quella di chiamarlo mistero”. Definizione da uomo, che forse fa sorridere molte donne.
Sigmund Freud, il padre della psicanalisi, un altro uomo, dovette ammettere di non aver compreso “che cosa vuole una donna” (E. Jones, The life and work of Sigmund Freud Vol. 2, New York, Basic Books, pag. 421). Lui, che vedeva le donne eternamente condannate all’invidia del pene, riconobbe sempre che non capiva le donne, tanto che le chiamava il “continente nero per la psicologia” (S. Freud, The question of lay analysis, in Standard edition Vol. 20, pag. 212). Nella sua dichiarazione finale in merito alle donne, suggerì: “Se volete saperne di più sulla femminilità, informatevi per esperienza personale di vita o rivolgetevi ai poeti”. – S. Freud, New introductory lectures on psychoanalysis, in Standard edition Vol. 22, pag. 135.
Più recentemente, si sono valutate le caratteristiche psicologiche della donna nei suoi attributi più specifici: l’accoglimento, la ricettività, l’altruismo, la tenerezza, l’empatia, la sensibilità, la delicatezza, la pazienza, la comprensione e la collaborazione (Paul-Edmond Lalancette, La nécessaire compréhension entre les sexes, Québec, 2008, pagg. 147-150). Il femminile accoglie ciò che è senza giudizio, come la madre accoglie suo figlio e lo ama per come è: lo nutre senza attesa di ricompensa, disinteressatamente e generosamente. Le qualità del femminile sono dunque l’amore, l’unione, la fusione, la generosità, la tenerezza, la compassione. Il femminile è inoltre l’energia della vita, in un’esperienza di abbandono alla corrente della vita stessa (A. Boudet, Hommes et Femmes, l’union du masculin et du féminin en soi). Di certo, quando la società denigra le qualità femminili, una donna non ha ragioni per apprezzarsi in quanto donna: “La migliore schiava non ha bisogno di essere battuta, ella si batte da sola”. – Erica Jong, Alcestis on the Poetry Circuit.
Per definire la concezione della femminilità occorre riferirsi alla Bibbia. Nella concezione biblica della creazione, c’è nelle intenzioni di Dio Creatore il progetto di una perfetta simmetria tra l’uomo e la donna: “Li creò maschio e femmina” (Gn 1:27). Ma già l’asimmetria, che si produsse tra i due ruoli in seguito al peccato (compiuto per primo dalla donna – Gn 3:6), viene anticipata nell’Eden con la constatazione di una mutata condizione della donna; mentre l’uomo dovrà lavorare con fatica per trarre i frutti dal suolo terrestre (Gn 3:17-19), la donna non solo avrebbe provato maggiori dolori nel parto, ma il suo istinto si sarebbe rivolto all’uomo che l’avrebbe dominata (Gn 3:16). Vengono qui riconosciute due caratteristiche fondamentali –acquisite – della femminilità, le quali si caratterizzano storicamente come costanti nella donna: la maternità, legata alla procreazione, e la tensione della donna a cercare la realizzazione di se stessa in un rapporto con l’uomo, cui va aggiunto il dominio maschile che originariamente non doveva esserci. Il resto è storia, storia di maschilismo, di prevaricazione maschile, di denigrazione della donna.
Fidanzata – definizione (ebraico: אֹרָשָׂה, orashàh; greco: non presente)
La fidanzata ebrea era impegnata con il fidanzato come se ne fosse già la moglie. Ciò valeva ovviamente anche per il fidanzato. Appena erano presi gli accordi per il matrimonio, i due si fidanzati erano da subito considerati come sposati.
Ciò spiega perché i fidanzati delle figlie di Lot sono da lui chiamati “generi” sebbene le figlie vivessero ancora con lui (Gn 19:14). Ciò spiega anche perché un angelo disse a Giuseppe, rassicurandolo: “Non temere di prendere con te Maria, tua moglie” (Mt 1:20), sebbene si trattasse per il momento solo della fidanzata. L’unica differenza tra fidanzata e sposa era che i fidanzati non coabitavano. – Gn 19:8,14; Gdc 14:15,16,20.
Il fidanzamento era presso gli ebrei talmente equiparato al matrimonio che se una fidanzata avesse tradito il fidanzato, la Legge esigeva che sia lei sia l’uomo colpevole fossero giustiziati: “Quando una fanciulla vergine è fidanzata e un uomo, trovandola in città, si corica con lei, condurrete tutti e due alla porta di quella città, e li lapiderete a morte”. – Dt 22:23,24.
La proposta di matrimonio che dava luogo al fidanzamento in genere era fatta dai genitori del ragazzo, pur non essendo esclusi casi in cui fosse il padre della ragazza a farlo, specialmente se la ragazza era di gruppo sociale diverso (Gs 15:16,17; 1Sam 18:20-27). Il consenso della donna era richiesto (Gn 24:8), e ovviamente i due fidanzati avevano voce in capitolo. – Gn 29:20.
Le ragazze ebree che ereditavano le proprietà paterne perché non avevano fratelli maschi, potevano fidanzarsi e poi sposarsi con chi volevano, a patto che il futuro sposo fosse della loro stessa tribù. Questa norma fu originata da un precedente legale occorso alle “figlie di Selofead”, “Mala, Noa, Cogla, Milca e Tirsa” (Nm 26:33), cinque ragazze ebree il cui padre “non ebbe maschi ma soltanto delle figlie” (Ibidem): “Questo è quanto il Signore ha ordinato riguardo alle figlie di Selofead: si sposeranno con chi vorranno, purché si sposino in una famiglia della tribù dei loro padri”. – Nm 36:6.
In Israele, quando ci si fidanzava, era prevista una dote, chiamata מֹהַר (mohàr). Non si pensi però ad una dote nel senso che noi diamo a questa parola. Si trattava di un vero e proprio prezzo della sposa (Gn 34:12; Es 22:16,17; 1Sam 18:25) che veniva pagato ai genitori o ai parenti di lei (Gn 24:53). Questo “prezzo” era una specie d’indennizzo per la sottrazione della figlia. Tale mohàr poteva anche essere corrisposto come lavoro prestato (Gn 29:15-30; Gs 15:16). In caso di matrimonio riparatore il מֹהַר (mohàr) doveva essere pagato al padre di lei, e se il padre rifiutava il matrimonio, il prezzo era ugualmente dovuto (Es 22:16,17). Ovviamente, la sposa riceveva regali dal padre o da altri. – 1Re 9:16; Gs 15:17-19; Gn 24:53.
La Legge di Dio aveva molta considerazione per la fidanzata: il suo fidanzato era esonerato dal servizio militare. – Dt 20:7.
A che età ci si fidanzava in Israele? Dal Talmùd sappiamo che era vietato ad un ragazzo al di sotto dei 13 anni compiuti e a una ragazza al di sotto dei 12 anni compiti. Il fidanzamento non durava anni.
La parola “fidanzata” è usata dalla Bibbia anche in senso metaforico. Dio dice a Gerusalemme: “Io mi ricordo dell’affetto che avevi per me quand’eri giovane, del tuo amore da fidanzata” (Ger 2:2). E Paolo parla della congregazione dei discepoli di Yeshùa come di una fidanzata: “Vi ho fidanzati a un unico sposo, per presentarvi come una casta vergine a Cristo”. – 2Cor 11:2.