Che cos’è la preghiera? Un richiesta di implorazione della misericordia di Dio? Solo questo? È, come presuntuosamente pensano alcuni, un dialogo con Dio? E chi siamo mai noi per dialogare con Dio? “Mosè, tutto tremante, non osava guardare. Il Signore gli disse: ‘Togliti i calzari dai piedi; perché il luogo dove stai è suolo sacro’”. – At 7:32,33; cfr. Es 3:5.
Nella preghiera sono condensate tutte le nostre azioni che culminano nei nostri pensieri. La nostra intera vita spirituale è tutta racchiusa nel momento della preghiera. Per mantenere viva la preghiera dobbiamo vivere nella preghiera. “Non cessate mai di pregare” (1Ts 5:17). Ma come è possibile pregare “incessantemente” (Ibidem, TNM)? Mosè “rimase costante, come se vedesse colui che è invisibile” (Eb 11:27). “Sia dunque che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualche altra cosa, fate tutto alla gloria di Dio” (1Cor 10:31). Se Dio è costantemente di casa nella nostra mente, la nostra condizione morale e spirituale ci permette di vivere nell’attitudine alla preghiera. Altrimenti è necessaria una trasformazione interiore. Pregare è arrendersi a Dio. È rendersi conto di fronte a Chi siamo. Non siano più un “io”: per il Signore del cielo e della terra siamo un “lui” o una “lei”. Nella preghiera Dio non è l’oggetto e noi il soggetto. Il soggetto è Dio. Il rapporto non è “io e Dio”, che suona già irrispettoso. Al povero Giobbe che pretendeva di parlare a tu per tu con Dio, “il Signore rispose a Giobbe dal seno della tempesta, e disse: ‘Chi è costui che oscura i miei disegni con parole prive di senno? Cingiti i fianchi come un prode; io ti farò delle domande e tu insegnami! Dov’eri tu quando io fondavo la terra? Dillo, se hai tanta intelligenza” (Gb 38:1-4). Abraamo, rispettoso e timoroso, riprende così il suo parlare a Dio: “Ecco, prendo l’ardire di parlare al Signore, benché io non sia che polvere e cenere” (Gn 18:27). È solamente Dio, “il Terrore d’Isacco” (Gn 31:42), che può dire “io”: “Io sono il Signore, il tuo Dio” (Es 20:2). È nell’umiltà che dobbiamo accostarci a Dio. Dio è anche Padre. Possiamo pregarlo con fiducia, ma sempre nel rispetto che gli è dovuto. La preghiera va iniziata sempre con la lode, non con la supplica: “Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome” (Mt 6:9). Lodare Dio è la prima cosa, significa riconoscere che lui solo è Dio e significa riconoscere che noi siamo solamente “polvere e cenere”. “Il Signore, il vostro Dio, è il Dio degli dèi, il Signore dei signori, il Dio grande, forte e tremendo” (Dt 10:17). “Io sono il Dio onnipotente” (Gn 17:1). “Ma tu sei un Dio pronto a perdonare, misericordioso, pieno di compassione” (Nee 9:17). “‘Sarò per voi come un padre e voi sarete come figli e figlie’, dice il Signore onnipotente” (2Cor 6:18). L’onnipotenza di Dio e la sua misericordia sono un tutt’uno.
La preghiera è allora il nostro tentativo di richiamare l’attenzione di Dio, di diventare un suo pensiero. Tutta la nostra vita dovrebbe avere come obiettivo costante di diventare degni di essere ricordati da Dio.
Solo i presuntuosi pretendono di conoscere Dio. Non è neppure il nostro compito. Piuttosto dovremmo cercare di essere conosciuti da Dio. Paolo inizia dicendo: “Ora che avete conosciuto Dio …”, poi si corregge: “O piuttosto che siete stati conosciuti da Dio” (Gal 4:9). È e sarà sempre impossibile conoscere pienamente Dio.
“O Dio, come è immensa la tua ricchezza,
come è grande la tua scienza e la tua saggezza!
Davvero nessuno potrebbe conoscere le tue decisioni,
né capire le vie da te scelte verso la salvezza.
Chi mai ha potuto conoscere il tuo pensiero, o Signore?”.
– Rm 11:33,34, PdS.
Nella preghiera non si tratta di conoscere Dio. Nella preghiera desideriamo piuttosto essere conosciuti da Dio. A che ci servirebbe mai conoscere tutta la Bibbia e cercare di conoscere Dio se poi Dio non ci degna di uno sguardo? Il nostro compito è di rendere la nostra vita degna di ricevere lo sguardo di Dio. La preghiera dice se la nostra vita è degna del suo interesse. La preghiera non ci salva necessariamente, ma ci rende degni di essere salvati. Nella preghiera ci apriamo completamente al “Padre degli astri luminosi presso il quale non c’è variazione né ombra di mutamento” (Gc 1:17) affinché faccia “risplendere in noi la luce”. – 2Cor 4:6, PdS.
“Fa’ risplendere sul tuo servo la luce del tuo volto;
salvami per la tua benevolenza.
O Signore, fa’ ch’io non sia confuso, perché t’invoco”.
– Sl 31:16,17.
Può capitare di abbandonare Dio e di essere quindi abbandonati da lui. Che la nostra vita divenga priva della presenza di Dio fa parte della nostra miseria umana e uno stato di peccato rende Dio assente. “Poiché si sono allontanati da Dio nei loro pensieri, Dio li ha abbandonati, li ha lasciati soli in balìa dei loro pensieri corrotti” (Rm 1:28, PdS). Il rischio è quello di essere completamente abbandonati dall’Onnipotente. Sentire in noi questo timore e avere il desiderio di rimediare è l’inizio di una preghiera silenziosa e non detta, ed “Egli adempie il desiderio di quelli che lo temono, ode il loro grido, e li salva” (Sl 145:19). Se ce ne rendiamo conto, è il momento di pregare, di cercare di essere portati alla sua misericordiosa attenzione.
“Vengo davanti a te, Signore.
Non nascondermi il tuo volto.
Non scacciare con ira il tuo servo:
sei tu il mio aiuto.
Non respingermi, non abbandonarmi,
mio Dio, mio Salvatore”.
– Sl 27:8,9, PdS.
In fondo, il senso della preghiera è: “Non abbandonarmi, mio Dio”. Per aprirci davvero a Dio dobbiamo imparare a liberarci del nostro io presuntuoso, ricordarci che siamo mortali, che siamo dei viventi a tempo, in attesa della morte. Dobbiamo spogliarci di noi stessi, riconoscendo l’assurdità – nella nostra miseria – del crederci chissà cosa. “Io sono povero e misero” (Sl 40:18, PdS); “Nudo uscì dal seno di sua madre, e senza niente se ne andrà da questo mondo” (Ec 5:14, PdS). È nella preghiera che siamo vivi davanti a Dio. E la preghiera è molto più che un grido angosciato e un lamento tormentoso. Il momento del bisogno e la disperazione che possiamo esprimere non sono ancora preghiera. Diventano preghiera quando iniziamo a percepire la misericordia di Dio e, dimenticando il nostro affanno, iniziamo a pensare davvero a Dio e alla sua misericordia. Da quel momento siamo in preghiera.
A ben pensarci, la preghiera non è la sensazione di sentirci a nostro agio. Al contrario, comporta la sensazione di sentirci a disagio perché non riusciamo a vivere secondo la Sua santa volontà. “Adoperatevi al compimento della vostra salvezza con timore e tremore” (Flp 2:12). Occorre essere certi e consapevoli dell’esistenza di Dio. “Senza fede è impossibile piacergli; poiché chi si accosta a Dio deve credere che egli è, e che ricompensa tutti quelli che lo cercano” (Eb 11:6). Solo un demente può pregare senza credere che Dio esiste.
La preghiera non è però il momento in cui conoscere Dio. È piuttosto il momento in cui farci conoscere da Dio. Che cos’è la preghiera? Definendo la preghiera, forse la prima spiegazione che viene alla mente è che pregare sia un colloquio con Dio. Ma è proprio così? In fondo, chi siamo noi per colloquiare con Dio?
La nostra preghiera indubbiamente è desiderata da Dio: “Si facciano supplicazioni, preghiere […]. Questo è eccellente e accettevole dinanzi al nostro Salvatore, Dio” (1Ts 2:1,3). Dio desidera le preghiere e le ode: “Tu ascolti la preghiera, a te viene ogni uomo” (Sl 65:2). Pregare è anche un nostro bisogno: “Ascolta, Signore, le mie parole; accogli il mio lamento. Non senti il mio grido, tu, mio Re e mio Dio? A te mi rivolgo, Signore”. – Salmo 5:2,3.
Cos’è dunque la preghiera? Non è corretto definire la preghiera in termini di un dialogo con Dio. Noi non ci rivolgiamo a lui da persona a persona. Dio è Dio. Il nostro pregarlo non è un rapporto tra due persone alla pari. Il nostro pregarlo è piuttosto un tentativo di porci alla sua attenzione, di diventare oggetto del suo pensiero. Nella preghiera noi cerchiamo l’attenzione di Dio. La preghiera è profusione di quanto c’è di più intimo in noi, verso di lui. È una richiesta di ascolto. Noi chiediamo di essere da lui notati, di essere visibili a lui, di essere da lui compresi, aiutati.
Nella preghiera l’obiettivo non è conoscere Dio, ma essere conosciuti da Dio. Dio già sa ogni cosa, Dio sa tutto e sempre; ma può, per così dire, girarsi dall’altra parte, non voler prestare attenzione alla nostra vita lontana da lui. Nostro desiderio è che rivolga a noi la sua attenzione, che ci conosca: “Avete conosciuto Dio; anzi è Dio che vi conosce” (Gal 4:9). La nostra aspirazione più recondita è proprio quella di diventare oggetto della sua conoscenza, del suo interesse, della sua sollecitudine. Desiderare d’essere un pensiero di Dio: ecco in cosa consiste la preghiera. Ma siamo degni di essere conosciuti da lui e di ottenere la sua misericordia? La più grande tragedia che possa capitarci è quella di sperimentare l’abbandono di Dio. Cosa c’è di più terribile che essere respinti da lui? “È pauroso cadere nelle mani dell’Iddio vivente” (Ebrei 10:31). Se noi abbandoniamo Dio, non è Dio che rimane solo, ma noi. Evitare di pregare ci separa sempre di più da lui. Eppure possono rimanere in noi dei brandelli di coscienza, anche se ben celati. E questi a volte possono farci risvegliare per farci piangere, specialmente quando giungiamo vicini alla disperazione. In tali momenti potremmo anche essere inclini alla preghiera, ma l’inclinazione alla preghiera non è ancora preghiera.
Pregare è vincere noi stessi, il nostro orgoglio, e arrenderci a Dio. È mettere insieme tutto ciò che giace nel nostro animo (pianto, dolore, disperazione, incertezza, speranza) e affidarlo a lui. Pregare non è un semplice parlare, dire parole, ma concentrare il nostro intimo sul contenuto e sul significato delle parole, rendendoci conto che siamo davanti al Signore dell’universo. Pregare non è un soliloquio che si perde nel nulla, “sperando che Qualcuno lassù ascolti”. Pregare è un vero e proprio evento che parte da noi e termina in Dio.
La vera preghiera non è incentrata sul nostro io. Possiamo anche passare ore e ore a meditare su noi stessi senza che la preghiera si realizzi. La preghiera diventa tale quando ci rivolgiamo a Dio completamente, con la mente e con il cuore. Anche quando nella disperazione chiediamo a lui aiuto e guida, c’è almeno un momento in cui la nostra mente si stacca dai nostri bisogni contingenti e coglie la sua misericordia: quel momento è preghiera.
Pregare è cercare la compagnia di Dio, affidandoci a lui e aprendogli il nostro cuore. Come disse il pensatore ebreo A. J. Heschel, “pregare è sognare in combutta con Dio”. Pregare è tentare di far sì che Dio divenga partecipe della nostra vita, è stabilire un contatto vivo con lui. “Scrutami, o Dio, e conosci il mio cuore. Esaminami, e conosci i miei inquietanti pensieri”. – Sl 139:23.
La preghiera non è un dovere. La Legge di Dio non prescrive in nessun punto il nostro obbligo di pregare. Pregare è un nostro atto di amore per la sua bontà, una nostra risposta alla sua sollecitudine e alla sua cura.
Pregare è portare la presenza di Dio nel mondo: Dio è trascendente, ma la nostra preghiera lo rende immanente. Quando diciamo: “Sia santificato il tuo nome” (Lc 11:2), lo rendiamo presente nel mondo. E nella nostra vita.
Per chi pregare
Non è questione di egoismo, ma piuttosto questione di debolezza: siamo indotti pertanto dalla nostra inadeguatezza, dalla nostra caducità e dalla nostra manchevolezza a pregare spesso per noi stessi. Il nostro Dio non si stanca di queste preghiere: indicano infatti la nostra dipendenza da lui, anzi la nostra costante dipendenza da lui. Dio è sollecito verso di noi e sa che abbiamo bisogno di fare incessante appello al suo aiuto. “Abbi pietà di me, o Dio” (Sl 56:1). Nella Bibbia ci sono diverse occasioni in cui il credente chiede a Dio soccorso per se stesso: “Sostienimi” (Sl 119:116), “Aiutami … salvami” (Sl 109:26; cfr. 141:9), “O Signore, guidami” (Sl 5:8), “Liberami”. – Sl 39:8.
Va detto, comunque, che le preghiere presenti nella Bibbia e che hanno per oggetto un bisogno individuale e personale, non insistono oltre i confini delimitati dalla volontà di Dio; pur nella richiesta personale, c’è sempre il desiderio di fare la volontà di Dio. Così, ad esempio, troviamo che Paolo pregò tre volte allo scopo che la “spina nella carne” che lo affliggeva gli fosse risparmiata, e per tutta risposta ottenne: “La mia grazia ti basta” (2Cor 12:7-9). Yeshùa, alla sua implorante e disperata richiesta nel Getsemani, non ottenne neppure risposta, ma solo silenzio da parte di Dio. – Mt 26:39-44.
La Bibbia ci insegna però a pregare anche per gli altri. Paolo faceva incessantemente menzione dei fratelli nelle sue preghiere (Rm 1:9). Lo stesso Paolo dice: “Esorto dunque, prima di ogni altra cosa, che si facciano suppliche, preghiere, intercessioni, ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che sono costituiti in autorità, affinché possiamo condurre una vita tranquilla e quieta in tutta pietà e dignità” (1Tm 2:1,2). Già Abraamo, duemila anni prima di lui, aveva pregato a favore dei sodomiti giusti (Gn 18:23 e sgg.) e per Abimelec (Gn 20:17). Giobbe pregò per i suoi presunti amici (Gb 42:8). Yeshùa pregò per Pietro (Lc 22:32). Giacomo esorta: “Pregate gli uni per gli altri”. – Gc 5:16.
Allo stesso modo, ci sono preghiere fatte da altri per noi. “Pietro era tenuto nella prigione; ma preghiera era intensamente rivolta a Dio per lui dalla congregazione” (At 12:5, TNM). Paolo faceva affidamento sulle preghiere a suo favore fatte da Filemone e dalla chiesa: “Spero, grazie alle vostre preghiere” (Flm 2). Simon mago chiede lui stesso a Pietro e a Giovanni preghiere a suo favore: “Pregate voi il Signore per me” (At 8:24). È stupendo sapere che qualcuno, senza che noi magari ne siamo al corrente, sta pregando per noi e che il suo gesto silenzioso giunge al Cielo. Più di tutte dovremmo apprezzare le preghiere che Yeshùa stesso rivolge a Dio a nostro favore. Dio ci dà speranza e “questa speranza la teniamo come un’àncora dell’anima, sicura e ferma, che penetra oltre la cortina, dove Gesù è entrato per noi quale precursore, essendo diventato sommo sacerdote in eterno”. – Eb 6:19,20.
“Manchiamo tutti in molte cose” (Gc 3:2). Pur credenti e desiderosi di compiere la volontà di Dio, la nostra natura umana ci porta e sbagliare e perfino a cadere. Yeshùa, però, “può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si avvicinano a Dio, dal momento che vive sempre per intercedere per loro” (Eb 7:25). Ora Yeshùa “è alla destra di Dio e anche intercede per noi”. – Rm 8:34.