Il Dizionario italiano Devoto Oli definisce la preghiera così: «Testo, parola o pensiero mediante cui il devoto si rivolge alla divinità». Al di là delle definizioni, ciascuno risponderà più o meno a modo suo alla domanda su cosa sia la preghiera. Un buddista risponderebbe in un modo che sarebbe sconcertante per un cristiano. Ciò è illustrato da un aneddoto che narra di un missionario cristiano che, vedendo un monaco cinese in preghiera, gli pone delle domande.
– Chi stai pregando?
– Nessuno, rispose il monaco.
– Per che cosa stai pregando?, precisò allora il missionario.
– Per nulla, rispose ancora il monaco.
Mentre il missionario se ne stava andando con visibile disappunto, il monaco aggiunse:
– Comunque, guarda che qui non c’è nessuno che sta pregando.
Il Buddismo colloca la divinità o, meglio, il divino all’interno della vita del singolo praticante. Lo scopo sostanziale della preghiera buddista è dunque quello di risvegliare le innate capacità interiori di forza, coraggio e saggezza, non quello d’invocare forze o divinità esterne.
Questa concezione, se non stiamo attenti, può albergare anche nella nostra mente. Molti psicologi, ad esempio, consigliano la preghiera. Per loro è una pratica terapeutica. Ciò ha però più a che fare con la riflessione e la meditazione personali, che sono certamente pratiche di tutto rispetto, ma che nulla hanno a che fare con la preghiera. Se non ci fosse Qualcuno ad ascoltare le nostre preghiere, pregando saremmo solo degli illusi e dei vaneggiatori, persone fuori di testa.
Per un buddista la preghiera è uno stato d’animo che dà pace, pienezza interiore, armonia. Condizione di certo molto desiderabile, ma che possiamo ottenere anche ascoltando una sinfonia o facendo una bella passeggiata.
Per la filosofia panteista tutto è Dio e nulla è Dio. Bel concetto, ma la Bibbia lo esprime meglio dicendo non che Dio sia in noi ma che noi siamo in Dio, “difatti, in lui viviamo, ci moviamo, e siamo” (At 17:28). Senza un “io” e un “Tu” la preghiera non ha davvero senso.
Liberarsi dalla schiavitù delle cose e del tempo è, per il Buddismo, il nirvana. Per la Bibbia la preghiera è rivolgersi a Dio che ascolta, portare a lui le nostre cose. La preghiera di una bambina, che prega per avere un cucciolo o che alle parole “dacci oggi il nostro pane quotidiano” aggiunge: “e anche la marmellata”, ha più valore di una preghiera buddista, perché nella sua ingenuità esprime fede nell’ascolto di Dio.
Se non avessimo la certezza che Dio ascolta la nostra preghiera, non solo sarebbe assurdo pregare ma saremmo davvero nell’angoscia del buio più totale, perfino in senso letterale, perché il nostro pianeta è in un universo buio. A poco servono le luci di Las Vegas o di Hong Kong o tutte le altri luci artificiali del mondo, se poi rimaniamo confinati in una remota zona del buio universo nel quale nessuno potrebbe accogliere il grido disperato che si leva dalla terra. Chi pensa che Dio non possa ascoltare e ciononostante prega, non è solo un illuso, è un demente. Se si pensa che l’essere umano sia solo il prodotto accidentale di combinazioni di elementi che si sarebbero evoluti e che l’universo sia solo il prodotto caotico di un’esplosione, non ci sarebbe davvero alcun motivo per lodare Dio e ringraziarlo.
La preghiera biblicamente intesa implica uno stato d’animo? Certo che sì, ma la preghiera non è ridotta tutta a questo, come nel Buddismo. Noi preghiamo Qualcuno che è distinto dalla creazione. Nella preghiera noi ci rivolgiamo a Qualcuno che è altro da noi. È meglio sfidare Dio, implorarlo con le lacrime agli occhi, reclamare una sua risposta, che non pensare che il massimo della devozione sia raggiungere la pace interiore. Ci sono persone sagge che vivono in pace con se stesse e in armonia con tutto e tutti, eppure Dio può essere assente dalla loro vita perché non credono in un Dio personale. È un paradosso terribile, ma perfino chi bestemmia è più vicino alla realtà dell’esistenza di Dio che non chi conduce una vita tutta armonia non credendo che Dio esista.
Per pregare dobbiamo prima di tutto metterci di fronte a Lui. Non si tratta quindi di cercare un certo stato d’animo. Lo stato d’animo è quello che è e certe volte può perfino non essere quello giusto. Non sempre si ha voglia di pregare. In questi casi ci è d’aiuto il comando biblico. Entrando in preghiera, anche forzandoci, possiamo già ringraziare Dio di essere coscienti del nostro disagio e della non propensione alla preghiera che abbiamo in quel momento. “Getta sul Signore il tuo affanno, ed egli ti sosterrà” (Sl 55:22); “Riponi la tua sorte nel Signore; confida in lui, ed egli agirà” (Sl 37:5); “Perché ti abbatti, anima mia? Perché ti agiti in me? Spera in Dio” (Sl 43:5); “Gettate su di lui tutta la vostra ansietà, perché egli ha cura di voi”. – 1Pt 5:7, TNM.
Per pregare dobbiamo essere coscienti non solo dell’alterità di Dio ma anche della sua prossimità. Sapere che Dio esiste, non è tutto: “Tu credi che esiste un solo Dio? È giusto. Ma anche i demòni ci credono, eppure tremano di paura” (Gc 2:19, PdS). Pur credendo che Dio esiste, se pensassimo che sia incommensurabilmente lontano e che non ascolti, non pregheremmo.
Una persona che non entra in rapporto con nulla e nessuno è una persona che non vive o che è costretta a vegetare in un letto. Vivendo, entriamo in rapporto con gli oggetti e le persone. E non dovremmo entrare in rapporto con il Creatore? Non siamo indipendenti da Dio, giacché “egli fa levare il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti” (Mt 5:45). “Egli, nelle generazioni passate, ha lasciato che ogni popolo seguisse la propria via, senza però lasciare se stesso privo di testimonianza, facendo del bene, mandandovi dal cielo pioggia e stagioni fruttifere, dandovi cibo in abbondanza” (At 14:16,17). Abbiamo bisogno di Dio. “Di sicuro ogni uomo terreno è un soffio” (Sl 39:11, TNM) e gli uomini, “posti sulla bilancia, son tutti insieme più leggeri di un soffio” (Sl 62:9, TNM), ma se Dio ‘ritira il loro fiato, muoiono’ (Sl 104:29). È da insensati vivere come se Dio non esistesse.
Il credente vive in rapporto con Dio e vive il suo rapporto con Dio, non con una idea o un credo. La preghiera realizza il nostro rapporto con Dio. Non esiste rapporto più importante di questo. “Qualora mio padre e mia madre m’abbandonino, il Signore mi accoglierà”. – Sl 27:10.
Ancor prima che noi entriamo in rapporto con Dio, il apporto già esiste, perché è Dio che ha creato ogni cosa e noi dipendiamo da lui. È quindi doveroso, oltre che meraviglioso, relazionarci a lui. Se davvero capissimo cos’è la preghiera, ci sarebbe da perdere la ragione rendendoci conto che noi, piccoli e meschini, possiamo stare alla sua presenza ed essere ascoltati. Dal nostro abisso di miseria senza fondo possiamo raggiungere la vetta più alta su cui sta Colui che è Santità assoluta e infinita.
Per apprezzare lo smisurato privilegio che abbiamo di rivolgerci al Dio Altissimo, dobbiamo renderci conto dell’immensa distanza che c’è tra noi e lui. Ora, riguardo a Dio sappiamo due verità che appaiono contrastanti tra loro.
La trascendenza di Dio. Noi ci rivolgiamo “al Re eterno, immortale, invisibile, all’unico Dio” (1Tm 1:17), “il solo che possiede l’immortalità e che abita una luce inaccessibile; che nessun uomo ha visto né può vedere” (1Tm 6:16). Dio è invisibile e inaccessibile. Nessuno può violare questa sua silenziosa e misteriosa inaccessibilità.
L’intimità di Dio in noi ci è più intima della nostra stessa intimità. “Benché, in effetti, non sia lontano da ciascuno di noi” (At 17:27, TNM), il salmista si rende conto di qualcosa che sfugge alla sua capacità di comprensione:
“Signore, tu mi scruti e mi conosci;
mi siedo o mi alzo e tu lo sai.
Da lontano conosci i miei progetti:
ti accorgi se cammino o se mi fermo,
ti è noto ogni mio passo.
Non ho ancora aperto bocca
e già sai quel che voglio dire.
Mi sei alle spalle, mi stai di fronte;
metti la mano su di me!
È stupenda per me la tua conoscenza;
è al di là di ogni mia comprensione.
7Come andare lontano da te,
come sfuggire al tuo sguardo?
Salgo in cielo, e tu sei là;
scendo nel mondo dei morti, e là ti trovo.
Prendo il volo verso l’aurora
o mi poso all’altro estremo del mare:
anche là mi guida la tua mano,
là mi afferra la tua destra.
Dico alle tenebre: ‘Fatemi sparire’,
e alla luce intorno a me: ‘Diventa notte!’;
ma nemmeno le tenebre per te sono oscure
e la notte è chiara come il giorno:
tenebre e luce per te sono uguali.
Tu mi hai plasmato il cuore,
mi hai tessuto nel seno di mia madre.
Ti lodo, Signore: mi hai fatto
come un prodigio.
Lo riconosco: prodigiose sono le tue opere.
Il mio corpo per te non aveva segreti
quando tu mi formavi di nascosto
e mi ricamavi nel seno della terra.
Non ero ancora nato e già mi vedevi.
Nel tuo libro erano scritti i miei giorni,
fissati ancor prima di esistere.
Come sono profondi per me i tuoi pensieri!
Quanto è grande il loro numero, o Dio!
Li conto: sono più della sabbia!
Al mio risveglio mi trovo ancora con te”.
– Sl 139:1-18, PdS.
Come si conciliano queste due diverse verità? Dio sa ogni cosa e nulla sfugge al suo sguardo. Egli però rimane inaccessibile e misterioso. L’unica possibilità che abbiamo di comunicare con lui è la preghiera.
La preghiera è una risposta. Noi crediamo che debba essere Dio a rispondere alla nostra preghiera, invece è la nostra preghiera che è risposta al suo chiamarci, al suo interpellarci. Dio è inaccessibile, e una nostra comunione con lui può originarsi solo dalla nostra risposta alla sua chiamata. Dio prende l’iniziativa e ci dà poi il potere di rispondergli. Ma qui siamo già in una fase inoltrata della preghiera. Potremmo esserci allontanati così tanto da lui da non sentire più la chiamata o di non esserne degni. Preso atto della nostra miseria, eleviamo allora un grido di soccorso perché Dio possa prestarci attenzione.
“O Signore, io grido a te da luoghi profondi!
Signore, ascolta il mio grido;
siano le tue orecchie attente al mio grido d’aiuto!
Se tieni conto delle colpe, Signore,
chi potrà resistere?
Ma presso di te è il perdono”.
– Sl 130:1-4.
Un “io”, che siamo noi, e un “Tu”, che è Dio. Ecco i protagonisti della preghiera. La preghiera è allora un dialogo? Così insegnano le religioni. Dialogare con Dio: sembra così bello. Questo concetto, tanto suggestivo, è preso per buono. Occorre però riflettere, ricordandoci dei nostri limiti. Occorre saper stare al nostro posto e rammentare di fronte a Chi stiamo. Occorre essere modesti. E rispettosi. Chi siamo mai noi per dialogare con Dio?
Che cos’è la preghiera
Dire che la preghiera sia un dialogo con Dio appare davvero come un’affermazione fatta alla leggera, non rendendosi conto della sproporzione che c’è tra noi e Dio. La preghiera non è neppure solo implorazione della misericordia di Dio: è molto di più. La preghiera è la condensazione di noi stessi, di tutto il nostro essere, in un momento solo. È il culmine di tutti i nostri pensieri e di tutte le nostre azioni. La preghiera sorge nella mente di un credente nella quale Dio non è un estraneo ma è ospite permanente, amato e desiderato. La profonda spiritualità del credente viene allora distillata in preghiera. Quello in cui si prega è un momento preziosissimo: dalla coscienza di noi stessi passiamo alla resa di noi stessi; arriviamo, in certi attimi profondi e intensi della preghiera, a dimenticare noi stessi per adorare Dio.
Abbiamo detto che i protagonisti della preghiera sono un “io”, che siamo noi, e un “Tu”, che è Dio. Sarebbe meglio dire: un “io”, che siamo noi, e un “Egli”, che è Dio; ancora meglio: un “esso/essa”, che siamo noi, e un “Egli”, che è Dio. Infatti, ciò che per noi stessi è “io”, per Dio è “esso” o “essa”. È Dio e solamente Dio che ci conferisce dignità. La nostra preghiera deve quindi iniziare nella prospettiva di Dio in cui siamo un “esso” alla sua presenza. Chi mai siamo noi, “io”? Con Abraamo possiamo solo dire: “Io non sono che polvere e cenere” (Gn 18:27, Darby) e con Mosè: “Chi sono io”? – Es 3:11.
Soltanto Dio può dire: Io. E infatti dice: “Io sono colui che sono” (Es 3:14). I Dieci Comandamenti iniziano così: “Io sono il Signore, il tuo Dio”. – Es 20:2.
Nella preghiera l’umiltà diventa reale. Non è una nostra virtù ma è la verità su di noi. Per il resto possiamo anche illuderci circa noi stessi, ma quando siamo in preghiera, chi si mette alla presenta maestosa di Dio non è un “io”, perché siamo consapevoli che Uno Solo può dire “Io” e che noi siamo per lui un “esso”. Tuttavia, Dio ci ritiene preziosi, ed è questo che ci permette di rivolgerci alla Maestà nei cieli. Ecco perché la nostra preghiera deve iniziare sempre con la lode: “Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome”. – Mt 6:9.
Dopo esserci riconosciuti un semplice “esso” o “essa” di fronte a Dio, possiamo anche diventare un “io”, perché Dio riconosce la nostra individualità quando diventiamo un suo pensiero. Ecco cosa è in effetti la preghiera: è il nostro tentativo di essere riconosciuti e conosciuti da Dio per diventare un suo pensiero. La preghiera è il nostro tentativo di richiamare la sua attenzione e di essere ascoltati, compresi, aiutati. Chi non comprende il profondo pensiero biblico e si affida a idee religiose, pone l’accento sulle proprie facoltà e riduce Dio a un oggetto a immagine e somiglianza umana, arrivando a sostenere che occorre avere conoscenza di Dio, magari studiando la Bibbia. Il concetto biblico è esattamente l’opposto. Paolo inizia con dire: “Ora che avete conosciuto Dio …”, poi si interrompe e si corregge: “O piuttosto che siete stati conosciuti da Dio” (Gal 4:9). La nostra vita è degna di essere conosciuta da Dio oppure Dio si volta dall’altra parte? Siamo un suo pensiero? Oppure non ci degna neppure di uno sguardo? È nella preghiera che si trova risposta a queste domande. Che cosa c’è di più desolante e terribile che essere abbandonati da Dio? Molte persone vivono lontane da Dio, ignorandolo, eppure continuano a vivere, finché vivono. È possibile. Ma quando si comincia a provare il timore di essere dimenticati da Dio, è davvero giunto il momento di pregare, di richiamare l’attenzione di Dio su di noi. Pregando possiamo allora scoprire che è meglio subire punizioni che essere ignorati da Dio, “perché il Signore corregge quelli che egli ama, e punisce tutti coloro che riconosce come figli” (Eb 12:6; cfr. Pr 3:12). La preghiera è proprio questo; ecco cos’è la preghiera: “Non lasciarmi, non abbandonarmi, o Dio della mia salvezza!”. – Sl 27:9.
Senza Dio, senza vivere davvero la nostra fede, siamo – per dirla con gli haitiani – zombie, morti che camminano. Nello stesso istante in cui veniamo al mondo scatta il conto alla rovescia che ci porterà alla nostra morte. “La mia vita, l’hai resa ben corta, di fronte a te la sua durata è un nulla. Ogni uomo è come un soffio, va e viene come un’ombra, la sua fatica è come un soffio” (Sl 39:6,7, PdS), “Perché mille anni sono ai tuoi occhi come il giorno di ieri ch’è passato” (Sl 90:4). Siamo morti viventi, sempre, eccetto che in un momento: nella preghiera, perché siamo vivi per Dio e, come assicurò Yeshùa, “chi crede in me, anche se muore, vivrà”. – Gv 11:25.
Pregare è più che gridare a Dio, afflitti e angosciati. È sentire in noi la misericordia di Dio. L’angoscia è questione del momento, che passa. Può anche motivare la preghiera in certi momenti, ma è quando dall’angoscia si passa a pensare a Dio, dimenticandola, che la preghiera si fa piena. Pregare significa orientarci completamente a Dio. La preghiera si fa autentica nel momento in cui andiamo oltre noi stessi. Il ragionamento lascia allora il posto allo stupore, che può anche sgomentarci, di essere stati attirati da una grandiosità che ci incanta. I pensieri si trasformano in desiderio che chiede e la richiesta si fa attesa che sa di visione.