La preghiera può iniziare come una scalata in luoghi aridi, rocciosi, impervi. All’inizio può non essere attraente. Si cerca di salire, si fa fatica, la meta appare lontana, irraggiungibile. Si sale, e si trovano la nebbia, le nuvole. Sembra inutile continuare. È troppo faticoso, difficoltoso e non si scorge neppure la meta. Si vorrebbe quasi tornate indietro. Poi, di colpo, ci si trova sopra le nuvole. La nebbia si dirada improvvisamente e l’aria è pura, il cielo limpido come non mai. Lo spettacolo è mozzafiato per la sua bellezza. Si vede panoramicamente fino in lontananza. Nel silenzio tutto è in una dimensione nuova, più vera, che sa d’eternità. La preghiera assomiglia a questo. “Che fai qui, Elia? … Esci dalla grotta e vieni sulla montagna, alla mia presenza”. Nella preghiera può capitare di volerci rimanere a lungo, incantati. “Salì da solo sul monte a pregare. Venne la notte, e Gesù era ancora là, solo”. – Mt 14:23, PdS.
Quando si ridiscende, con nostalgia si va già con la mente alla prossima scalata, pregustando quei momenti. “Gesù si alzò molto presto, quando ancora era notte fonda, e uscì fuori. Se ne andò in un luogo isolato, e là si mise a pregare”. – Mr 1:35, PdS.
“Se qualcuno ascolta la mia voce e apre la porta” (Ap 3:20). Fare silenzio. Occorre tacere, lasciare da parte il caos dei pensieri che affollano la nostra mente, deporre ciò che ci affanna. Fare silenzio per percepire e ascoltare la Voce che parla silenziosa. Aprire poi la porta del nostro cuore. Nel vortice dei nostri pensieri che parlano dentro di noi non s’ode la Voce. Ascoltare e aprire la porta. Poi tutto si fa luce.
“Le tenebre coprono la terra,
l’oscurità avvolge i popoli.
Ma su di te risplende la presenza
del Signore
che ti riempie di luce”.
– Is 60:2, PdS.
Facendo un’applicazione a noi personalmente, possiamo meditare su Is 52:1,2: “Svegliati, Gerusalemme. Apri gli occhi! Riprendi il tuo vigore, Sion, città santa, indossa gli abiti più belli. Gli stranieri, gli impuri non metteranno più piede fra le tue mura. Scuotiti, Gerusalemme, e togliti la polvere di dosso. Alzati, riprendi il tuo posto, Sion prigioniera, sciogli le tue catene che ti stringono il collo” (PdS). È ora di rivestirsi di luce e di magnificenza. Per questo occorre svegliarsi dal sonno. “E questo dobbiamo fare, consci del momento cruciale: è ora ormai che vi svegliate dal sonno; perché adesso la salvezza ci è più vicina di quando credemmo. La notte è avanzata, il giorno è vicino; gettiamo dunque via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce” (Rm 13:11,12). Dobbiamo toglierci di dosso le polverose abitudini che ci tengono sepolti e riprendere il nostro posto davanti a Dio. Quali sono le catene che ci stringono ancora il collo? Se le sciogliamo non saremo più prigionieri. Ben difesi allora dentro le nostre nuove sicure mura, pensieri estranei e impuri non troveranno più posto in noi.
La montagna
Yeshùa “salì tutto solo sul monte a pregare” (Mt 14:23, TNM). Da questa bella immagine possiamo prendere spunto per paragonare la preghiera a una montagna. Dalla pianura della nostra situazione abituale, iniziamo idealmente il cammino che ci porta alla vetta della preghiera, come se la preghiera fosse una montagna da scalare.
Girare attorno. Esiste una forma di preghiera che non è preghiera e che Yeshùa ha biasimato: “Nel pregare, non dite ripetutamente le stesse cose” (Mt 6:7, TNM; nota in calce: “Non parlate a vanvera; non pronunciate vane ripetizioni”). Questo modo di ripetete parole (si pensi ai rosari e alle preghiere ripetute a memoria tanto per dirle), che non merita neppure il nome di preghiera, è desolante, un’offesa a Dio. Si tratta di un inutile girare attorno: la montagna è lì, pronta per essere scalata, ma si preferisce far finta, facendo solo pochi passi intorno ad essa. Dovremmo provare orrore per questa pratica insulsa.
Salire un po’ e fermarsi. Poco convinti, si può provare a iniziare la scalata. Si inizia allora a parlare dando forma alla preghiera, che però si fa presto monologo ripiegato su se stesso. Dio è alla vetta, nel pruno fiammeggiante, ma noi siamo ancora molto lontani, su una pendice ancora troppo vicina alla pianura. E ci siamo pure fermati a parlare con noi stessi. Non stiamo comunicando alcunché. Con l’illusione di aver scalato, siamo ancora lì, credendo di fare mentre non facciamo. Questo modo di pregare lascia il tempo che trova. Non opera, non è proficuo.
A metà della scalata. Dio è più vicino. Iniziamo a sentirne la presenza, lo avvertiamo come Persona viva che sente e ascolta. Noi stessi ci sentiamo vivi e comunichiamo. La nostra preghiera si fa allora sentita e ci apriamo a lui con fede. La pianura è già lontana, siamo sul monte santo, consapevoli che siamo vicini alla sua presenza, noi soli e lui. Ciò che ora gli comunichiamo risente della sua risposta che smuove la nostra coscienza. Dio influenza i nostri pensieri. Dio può guarirci, può trasformarci dentro. Siamo davvero in preghiera.
In vista del roveto ardente. Più vicini alla vetta, siamo ormai su suolo sacro. È possibile andare oltre? Sì, anzi si deve. Ma dobbiamo prima deporre ciò che sarebbe irrispettoso davanti a Lui, ricordandoci di fronte a Chi siamo. “Fermati lì! Togliti i sandali, perché il luogo dove ti trovi è terra sacra!” (Es 3:5, PdS). In questa fase della preghiera ci priviamo del nostro orgoglio. Ci denudiamo, facciamo cadere le nostre maschere, ci caliamo nella verità e diveniamo nuda verità. Ci vuole coraggio per stare nudi davanti a lui, senza foglie di fico che nascondano le nostre vergogne interiori. Alla domanda: “Dove sei?” (Gn 3:9), non rispondiamo, come Adamo: “Ho avuto paura, perché ero nudo, e mi sono nascosto” (Gn 3:9), ma diciamo: “Parla, Signore, poiché il tuo servo ascolta”. – 1Sam 3:9.
Come ci parla Dio? Con la nostra mente, perché ci fa capire, facendo crollare le nostre illusioni. Con la nostra volontà, perché Dio ci fa volere, “infatti è Dio che produce in voi il volere e l’agire, secondo il suo disegno benevolo” (Flp 2:13). Con le nostre emozioni, quando sperimentiamo la pace e la gioia nei momenti di intensa preghiera; quando la nostra commozione è chiaro segno che Dio ha toccato il nostro cuore. Con la nostra visione interiore, non perché ci illudiamo o ci autosuggestioniamo, ma perché iniziamo a vedere in modo più vero, come il servitore di Eliseo (2Re 6:15-17). Con la nostra memoria, facendoci ricordare i nostri errori ma anche i momenti approvati, facendoci rammentare passi della Scrittura che ci guidino.
La vetta. Raggiungiamo la vetta della preghiera quando la preghiera si fa così semplice e pura che diventa amore. Le parole non bastano più, non sanno arrivare così in alto, e lasciano il posto a un abbandono assoluto che ci commuove profondamente. Si scende allora in profondità e si è ricolmi d’amore. L’amore di Dio, innanzitutto, e il nostro che esige comunione. Siamo sulla vetta, godendo pienamente del silenzio e dell’aria pura della spiritualità. La pianura della nostra povera quotidianità è così lontana ed estranea che vorremmo rimanere lì in vetta sempre. Come Pietro, diciamo: “Signore, è bello per noi stare qui”, e vorremmo erigere una tenda per accamparci e fermarci lì. – Mt 17:4, PdS.
Yeshùa “salì tutto solo sul monte a pregare. Benché si facesse tardi, egli era là solo” (Mt 14:23, TNM). Poi ridiscese. Sulla vetta si va per poi ridiscendere. Dopo aver provato l’ebbrezza della vetta, il sublime, si torna alla pianura. Ritemprati, rinfrancati. Sulla vetta si gode, poi si ridiscende. Ma qualcosa è cambiato: rimane la nostalgia di un’esperienza unica. La mente ritorna là con rimpianto. E sappiamo che ci torneremo. Non ce ne priveremo più.
“Per te il silenzio è lode”
Sembra ci sia imbarazzo a tradurre Sl 65:1. Così si legge in NR: “A te spetta la lode”; in ND: “A te, o Dio, spetta la lode”; in Did: “O Dio, lode ti aspetta”; in TNM: “Per te c’è lode – silenzio – o Dio” (che non si capisce cosa voglia dire); in CEI: “A te si deve lode, o Dio” (qui in 64:1). E dove è mai finita la parola דּוּמִיָּה (dumiyàh), presente nel versetto e tradotta “silenzio” in Sl 39:2? Il passo di Sl 65:1, che nel Testo Masoretico si trova al v. 2, dice:
לְךָ דֻמִיָּה תְהִלָּה
lechà dumiyàh tehilàh
Per te [il] silenzio [è] lode
Per comprendere il senso di questo passo occorre conoscere il pensiero biblico sulla grandezza di Dio e sulla nostra incapacità di descriverla. “Chi può raccontare le gesta del Signore, o proclamare tutta la sua lode?” (Sl 106:2). Dio “è esaltato al di sopra di ogni benedizione e di ogni lode”. – Nee 9:5.
Se dovessimo davvero renderci conto di quanta poca cosa noi siamo e di quanto incommensurabilmente grande e grandioso è Dio, la nostra preghiera si ridurrebbe a ciò che il salmistra consiglia: “Tremate e non peccate; sui vostri letti ragionate in cuor vostro e tacete”. – Sl 4:4.
“L’uomo fa molti progetti, ma il Signore ha l’ultima parola” (Pr 16:1, PdS). La più alta forma di preghiera sarebbe dunque tacere e sperare. Prima ancora che noi formuliamo delle parole, abbiamo dei pensieri. Dio li conosce già e li capisce.
Ci sono diversi gradi o livelli di spiritualità e ciascuno ha il suo proprio modo espressivo. Lo illustriamo con una frase che si legge nella liturgia ebraica askenazita del sabato: “Dalla bocca del giusto Tu sei lodato; dalle parole dell’irreprensibile Tu sei benedetto; dalla lingua del credente Tu sei esaltato; nel santo Tu sei santificato”. Nei primi tre livelli (giusti, irreprensibili e credenti) bocca, parole e lingua hanno il loro ruolo nel culto. In cima, al massimo livello, stanno i santi, il cui culto è nascosto, riservato, visibile solo a Colui che è il Santo e che conosce ogni segreto. È quando si arriva a questo livello che si è ridotti al silenzio: “Per te il silenzio è lode”. – Sl 65:1.
“Il Signore è nel suo tempio santo;
tutta la terra faccia silenzio in sua presenza!”. – Ab 2:20.
“Tacete davanti al Signore, Dio”. – Sof 1:7.
“Si faccia silenzio davanti al Signore”. – Zc 2:17, PdS.
“La parola non è ancora sulla mia lingua, che tu, Signore, già la conosci appieno” (Sl 139:4). Consapevoli della smisurata grandezza di Dio, possiamo lodare Dio solo se siamo davvero in grado di farlo. Perfino quando le parole della preghiera salgono alle labbra e le pronunciamo, dovremmo conservare un rispettoso silenzio interiore, rammentando di fronte a Chi siamo.