La confessione dei peccati si può spiegare e capire psicologicamente. Sorge naturale, nella persona colpevole, il bisogno di aprirsi con qualcuno. Gli inquirenti contano molto anche su ciò, lasciando solo e in attesa un indiziato per poi tenerlo per ore sotto pressione, finché non regge più e confessa. È la voce della coscienza che si fa sentire. Dopo essersi confessati ci si sente meglio. Lo sanno bene coloro che ricorrono a sacerdoti cattolici per la confessione. Ma qui il punto è: che cosa dice la Scrittura sulla confessione?
Anche la Bibbia parla di confessione. Ma nella Scrittura non si tratta di sfogo psicologico. Nella Bibbia la confessione è un mezzo per rimanere umili, per riconoscere le proprie colpe e ottenere da Dio il perdono. Per avere valore, la confessione deve essere unita al pentimento, al cambiamento di mentalità e al sincero proposito di non ricadere negli stessi peccati. La Sacra Scrittura parla di diversi tipi di confessione, che ora esamineremo, iniziando dalle Scritture Ebraiche.
Confessione generica. Questa confessione era compiuta da tutto il popolo, soprattutto nel Giorno dell’Espiazione, in cui il sommo sacerdote espiava prima i propri peccati e poi scacciava nel deserto un capro su cui aveva posto, con l’imposizione delle mani, i peccati di tutto il popolo. Il cerimoniale dell’aspersione del sangue completava il rito. – Lv 16:29-31;25:8-12.
Confessione personale. Oltre a questa confessione generale, erano poi previsti dei sacrifici animali per i peccati personali, volontari o involontari (Lv 5:1-6;6:1-7). I profeti d’Israele insistevano sul fatto che a tali sacrifici occorreva unire il pentimento e la volontà di non peccare più: “Io desidero bontà, non sacrifici, e la conoscenza di Dio più degli olocausti” (Os 6:6); “Praticare la giustizia e l’equità è cosa che il Signore preferisce ai sacrifici” (Pr 21:3); “Smettete di portare offerte inutili … Lavatevi, purificatevi, togliete davanti ai miei occhi la malvagità delle vostre azioni; smettete di fare il male; imparate a fare il bene; cercate la giustizia”. – Is 1:13,16,17.
Nelle Scritture Greche appaiono diverse forme di confessione. Vi è anche una confessione a Yeshùa, ma riservata al periodo in cui era in vita come uomo in Palestina. Si tratta della confessione di Pietro che si riconosce peccatore dopo una pesca miracolosa (Lc 5:8); della confessione della peccatrice che bagnò di lacrime i piedi del rabbi di Nazaret (Lc 7:37,38); del delinquente sulla croce accanto a Yeshùa (Lc 23:41); dell’esattore Zaccheo nel suo incontro con il Maestro (Lc 19:8). Ovviamente, questa confessione oggi non è più possibile. Vediamo ora le altre confessioni.
Confessione a Dio. È quella fatta dal figliol prodigo rinsavito (Lc 15:21); del pubblicano che se ne stava umilmente in fondo all’atrio del Tempio (Lc 18:13). L’apostolo Giovanni afferma: “Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità” (1Gv 1:9). Yeshùa stesso include tale richiesta di perdono nella sua preghiera modello: “Padre nostro che sei nei cieli … rimettici i nostri debiti come anche noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori”. – Mt 6:9-12, passim.
Confessione pubblica. È il caso dei discepoli di Giovanni il battezzatore quando si facevano immergere (Mt 3:6; Mr 1:5). È anche quella fatta da quegli efesini che divennero discepoli quando distrussero i loro libri magici. – At 19:18,19.
Confessione reciproca. È menzionata da Yeshùa in Mt 5:23,24: “Se dunque tu stai per offrire la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì la tua offerta davanti all’altare, e va’ prima a riconciliarti con tuo fratello”. È la confessione con cui il colpevole si riappacifica con l’offeso. “Confessate dunque i vostri peccati gli uni agli altri” (Gc 5:16). Chi ha offeso il prossimo deve ristabilire una relazione amichevole, riconoscendo il proprio torto e chiedendo scusa; se il prossimo è pure credente, deve essere pronto a perdonare. – Mt 18:21,22.
Il perdono dei peccati. Chi deve dare l’assoluzione dopo la confessione dei propri torti? Se la confessione è stata fatta direttamente a Dio, occorre confidare nel suo perdono. Dio “non si stanca di perdonare” (Is 55:7). L’Altissimo è “un Dio clemente e misericordioso”. – Nee 9:31.
“Se tieni conto delle colpe, Signore,
chi potrà resistere?
Ma presso di te è il perdono”. – Sl 130:3.
“Il Signore è pietoso e clemente, lento all’ira e ricco di bontà … Egli non ci tratta secondo i nostri peccati, e non ci castiga in proporzione alle nostre colpe”. – Sl 103:8,10.
Come in una famiglia, i credenti sono tra loro fratelli e sorelle in senso spirituale. Quando qualcuno sbaglia, si dovrebbe tentare ogni mezzo per riportarlo sulla via della verità. “Fratelli miei, se qualcuno tra di voi si svia dalla verità e uno lo riconduce indietro, costui sappia che chi avrà riportato indietro un peccatore dall’errore della sua via salverà l’anima del peccatore dalla morte e coprirà una gran quantità di peccati” (Gc 5:19,20). “L’odio provoca liti, ma l’amore copre ogni colpa” (Pr 10:12). “Soprattutto, abbiate intenso amore gli uni per gli altri, perché l’amore copre una moltitudine di peccati”. – 1Pt 4:8, TNM.
In questa pratica d’amore il peccatore è riportato con amore sulla retta via senza il bisogno di assoluzione personale. Chi copre i peccati è Dio e soltanto Dio. Lo stesso Yeshùa aveva indicato la via da seguire:
“Se tuo fratello ha peccato contro di te, va’ e convincilo fra te e lui solo. Se ti ascolta, avrai guadagnato tuo fratello; ma, se non ti ascolta, prendi con te ancora una o due persone, affinché ogni parola sia confermata per bocca di due o tre testimoni. Se rifiuta d’ascoltarli, dillo alla chiesa; e, se rifiuta d’ascoltare anche la chiesa, sia per te come il pagano e il pubblicano”. – Mt 18:15-17.
Si tratta qui di peccati che riguardano le offese personali (“se tuo fratello ha peccato contro di te”), non di peccati in genere. Per questo, in Lc si ha: “Se si ravvede, perdonalo. Se ha peccato contro di te sette volte al giorno, e sette volte torna da te e ti dice: ‘Mi pento’, perdonalo” (Lc 17:3,4). Nei casi di offesa personale è l’offeso che deve perdonare. Va poi notato che Yeshùa impone all’offeso di prendere lui stesso l’iniziativa di ristabilire un buon rapporto. Ciò collima perfettamente con l’altro suggerimento di Yeshùa di lasciare l’offerta sull’altare e di andare prima a sistemare le cose con chi ha qualcosa contro di noi. – Mt 5:23,24.
Secondo l’uso del suo tempo, Yeshùa propone una procedura che prevede tre gradi: 1. Colloquio a tu per tu con il colpevole; 2. Mediazione di due o tre persone; 3. Ricorso all’assemblea locale. È lo stesso procedimento che si attuava anche presso gli esseni: “Nessuno parli al suo fratello con ira … nello stesso giorno lo riprenda” (Regola della Comunità 1QS 5,25-26); “Chiunque tra coloro che sono entrati nell’alleanza porta contro il suo prossimo una accusa senza averlo prima rimproverato alla presenza di testimoni e la sostiene con ardente collera o la presenta agli anziani per attirare su di lui il disprezzo, manifesta con ciò che si vendica e manifesta rancore” (Documento di Damasco IX, 2-4). Sebbene la procedura sia la medesima, si noti la notevole differenza tra Yeshùa e i qumranici: per Yeshùa deve essere ristabilito l’amore, per gli esseni era importante stabilire chi avesse ragione e punire il colpevole. Anche il terzo passo raccomandato da Yeshùa (ricorrere all’assemblea locale) è fatto con l’intento di riconciliare offeso e offensore, non con quello di emettere assoluzione e condanna. Se fallisce anche questo estremo tentativo, “sia per te come il pagano e il pubblicano” ovvero come un pubblico peccatore. In genere si ritiene che questa frase indichi una scomunica. In questo errore cadono, ad esempio, i Testimoni di Geova che intendono la frase “parla alla congregazione” (Mt 5:14, TNM) come presupposto per formare ciò che essi stessi chiamano “comitato giudiziario” e che può decretare la disassociazione ovvero l’espulsione, valida in tutte le loro congregazioni nel mondo e che comporta il disumano trattamento di non aver più nulla a che fare con il disassociato, togliendogli perfino il saluto. Intanto, come già osservato, l’intento della prassi suggerita da Yeshùa non è giudiziario ma di riconciliazione. Ma soprattutto, a impedire tale dura interpretazione, ci sono le parole di Yeshùa “sia per te come il pagano e il pubblicano”. Se si trattasse di una cacciata dalla chiesa o dalla congregazione, avremmo dovuto trovare la frase generica ‘sia come il pagano e il pubblicano’, senza la specificazione “per te”. È proprio questa specificazione che indica che si tratta di questioni personali e non comunitarie.
Che senso ha la frase di Yeshùa “sia per te come il pagano e il pubblicano”? Lo spiega benissimo il teologo gesuita Jean Galot: “Anche se non ascolta la chiesa e quindi automaticamente si ritiene al di fuori di essa, tu devi ancora fare qualcosa per lui. Devi cercarlo come Gesù ha cercato i pubblici peccatori, come tu stesso fai con i pagani che cerchi di condurre alla fede. Gesù infatti ha amato i pagani; ne ha elogiato la fede che supera talvolta quella degli stessi israeliti, come dice al centurione: ‘In verità ti dico che in nessun israelita ho trovato una fede così grande’ (Mt 8,10 sgg.). Anche alla cananea dice: ‘Donna, grande è la tua fede. Ti avvenga come desideri’ e ne guarisce la figlia (Mt 15,29). Gesù osserva come Elia si sia rivolto a una vedova pagana di Sarepta e non a una vedova ebrea (Siria); come Eliseo abbia guarito un lebbroso siro e non qualcuno dei molti che vivevano in Israele (Lc 4,24). Egli profetizza poi che ‘numerosi (non ebrei) sarebbero venuti dall’oriente e dall’occidente … mentre i figli del regno (= israeliti) sarebbero stati cacciati fuori’ (Mt 8,11). … A differenza dell’ebraismo che proibiva lo stesso contatto con i colpevoli per non esserne contaminati, Gesù ha cercato di essere ‘l’amico degli esattori di tasse e dei peccatori’ (Mt 11,9). Li ha perfino preposti ai sacerdoti e agli anziani del popolo, quando dice: ‘In verità vi dico che gli esattori di tasse e le meretrici vi precederanno nel regno di Dio’ (Mt 21,31). Egli ha anzi elevato alla dignità di apostolo l’ex esattore di tasse Matteo, per questo il primo evangelista doveva essere ben più sensibile degli altri al richiamo di Gesù: ‘Ti sia come un esattore e un pagano’. In tale contesto anche il cristiano è invitato a comportarsi come Gesù verso il proprio offensore che si allontana dalla chiesa; a ricercarlo e a mostrargli il medesimo amore che Gesù ha avuto verso i peccatori da lui perdonati. Abbiano qui un suggerimento simile a quello di Paolo: ‘Vinci il male con il bene’ (Rm 12,20)”. – J. Galot, Qu’il soit pour toi comme le payen et le pubblicain, in Nouvelle Revue Thèologique 106 (1974), pagg. 1009-1030, sintetizzato dall’autore stesso.
Dopo aver suggerito i tre passi che abbiamo appena esaminato, Yeshùa aggiunge: “Io vi dico in verità che tutte le cose che legherete sulla terra, saranno legate nel cielo; e tutte le cose che scioglierete sulla terra, saranno sciolte nel cielo” (Mt 18:18). C’è qui apparente somiglianza con le parole di Yeshùa rivolte a Pietro in Mt 16:19: “Io ti darò le chiavi del regno dei cieli; tutto ciò che legherai in terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai in terra sarà sciolto nei cieli”. Tuttavia non si può concludere che dal momento che in Mt 16 si usa il singolare e in Mt 18 il plurale, il medesimo potere delle chiavi dato a Pietro sia poi trasmesso agli apostoli. Tale interpretazione è impedita dal contesto: nel caso di Pietro si riferisce alla fede, nel caso comunitario di Mt 18 si ricollega invece al perdono che l’offeso deve concedere all’offensore. Nel caso comunitario, poi, non c’è alcun riferimento agli apostoli; si tratta infatti di singoli credenti che, al massimo, chiedono l’aiuto a dei testimoni o alla comunità intera. Quando perciò Yeshùa dice “tutte le cose che voi legherete … tutte le cose che voi scioglierete” (Mt 18:18), quel “voi” va inteso come il “voi” successivo: “Se due di voi sulla terra si accordano a domandare una cosa qualsiasi, quella sarà loro concessa dal Padre mio che è nei cieli” (v. 19). È evidente quindi che non si riferisce solo agli apostoli ma a tutta la congregazione. Ulteriore prova ne è che all’inizio del v. 19 si usa l’avverbio πάλιν (pàlin), “di nuovo/pure/ancora” (cfr. TNM), che ribadisce la connessione tra le due frasi che riguardato tutta la comunità e non solo gli apostoli.
Giacché, come abbiamo visto, il contesto di Mt 18:15-17 non parla affatto della scomunica o espulsione, l’espressione “legare” e “sciogliere” vuole solamente suggerire che quando i credenti seguono la via tracciata da Yeshùa dell’amore e del perdono, Dio stesso ratifica il loro operato e dona o rifiuta il perdono che è stato concesso o rifiutato, cosa che avviene non per colpa dell’offeso ma dell’offensore che respinge ogni rappacificazione. In conclusione, tutti i passi suggeriti da Yeshùa hanno lo scopo di condurre il colpevole al perdono, riconducendolo all’amore non solo per il prossimo ma anche per Dio stesso.
Sbaglia quindi del tutto la teologia cattolica che stabilisce che i sacerdoti abbiamo il potere assolutorio dei peccati in virtù di una presunta trasmissione apostolica. In verità, tale potere assolutorio non è proprio concesso ad alcun uomo. Il contesto evangelico che abbiamo esaminato non riguarda affatto l’assoluzione dai peccati. Nessun credente, fosse finanche un apostolo o un vescovo, può assolvere in modo autoritario in nome di Yeshùa. Tale facoltà non fu mai concessa ad alcuno perché appartiene solo a Dio. Nel contesto evangelico esaminato risulta invece che ogni credente deve tentare in tutti i modi di perdonare il proprio offensore e che il perdono concesso è di conseguenza accolto anche da Dio. Se invece, per la cattiva volontà dell’offensore, il perdono è respinto (e quindi non può essere concesso), neppure Dio lo concede a chi ha peccato. A conforto del fatto che tale interpretazione sia quella vera, abbiamo il passo parallelo di Luca che, scrivendo il suo Vangelo per i pagani che non avrebbero capito le espressioni semitiche, dice le stesse cose con altra terminologia:
“Se tuo fratello pecca, riprendilo; e se si ravvede, perdonalo. Se ha peccato contro di te sette volte al giorno, e sette volte torna da te e ti dice: ‘Mi pento’, perdonalo”. – Lc 17:3,4.
Quando un peccato è rivolto contro un credente, costui può concedere il suo personale perdono, ma se si tratta di peccati non rivolti contro di lui, il credente può solo pregare (e non assolverlo) che Dio perdoni il peccatore. Il peccatore stesso, se è pentito, può pregare che Dio lo perdoni. – Gc 5:16.
È interessante e illuminante considerare il comportamento di Pietro, che il cattolicesimo pretende sia stato il primo papa, e quindi quello che avrebbe dovuto avere per eccellenza la facoltà di assolvere dai peccati. Simone il mago aveva tentato di corrompere gli apostoli cercando di comprare da loro (simonia) il potere di compiere miracoli. Leggiamo in At 8:20-22 la reazione di Pietro:
“Pietro gli disse: ‘Il tuo denaro vada con te in perdizione, perché hai creduto di poter acquistare con denaro il dono di Dio. Tu, in questo, non hai parte né sorte alcuna; perché il tuo cuore non è retto davanti a Dio. Ravvediti dunque di questa tua malvagità; e prega il Signore affinché, se è possibile, ti perdoni il pensiero del tuo cuore’”.
Si notino le parole di Pietro: “Prega il Signore affinché, se è possibile, ti perdoni”. Solo Dio ha il potere assolutorio. Pietro non poteva perdonare i peccati; poteva solo invitare il peccatore a pregare Dio per ottenere il perdono. Questa verità la capì perfino lo stesso mago, che contrito non chiese affatto il perdono a Pietro, ma chiese preghiere: “Pregate voi il Signore per me affinché nulla di ciò che avete detto mi accada”. – V. 24.
Anche l’apostolo Giovanni per la remissione dei peccati rimanda a Dio con l’intermediazione di Yeshùa: “Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; e se qualcuno ha peccato, noi abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto. Egli è il sacrificio propiziatorio per i nostri peccati, e non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo” (1Gv 2:1,1). Giovanni invita i fratelli a pregare per i peccatori: “Se qualcuno vede suo fratello commettere un peccato che non conduca a morte, preghi, e Dio gli darà la vita” (1Gv 5:16). Non occorre proprio alcuna assoluzione sacerdotale, perché “il sangue di Gesù, suo Figlio, ci purifica da ogni peccato”, a patto a che ci pentiamo: “Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità”. – 1Gv 1:7,9.