“Se camminiamo nella luce, com’egli è nella luce, abbiamo comunione l’uno con l’altro, e il sangue di Gesù, suo Figlio, ci purifica da ogni peccato” (1Gv 1:7). In verità, in questo passo biblico è detto che se camminiamo nella luce, il sangue di Yeshùa καθαρίζει, “continua a purificarci”, perché è questa la traduzione esatta dall’originale greco. Ciò comporta che anche il credente più perfetto ad occhio umano rimane pur sempre bisognoso dell’azione purificatrice del sangue di Yeshùa. Le esigenze che emergono da questo fatto sono fondamentalmente due: umiltà di comportamento e vigilanza per non ricadere nelle colpe da cui fummo purificati.
Il vero credente è umile. Quanto più un credente diviene spiritualmente maturo, tanto più si attiene all’umiltà. Umiltà è per il credente sinonimo di verità, perché sa di essere solo un peccatore ravveduto e convertito per grazia divina. Non ignora affatto che è pur sempre per la benevolenza divina che Dio fa operare in lui “il volere e l’agire” (Flp 2:13). È per questo che ripone la sua fiducia in Dio e non nelle sue capacità naturali.
“Non già che siamo da noi stessi capaci di pensare qualcosa come se venisse da noi; ma la nostra capacità viene da Dio. Egli ci ha anche resi idonei a essere ministri di un nuovo patto, non di lettera, ma di Spirito; perché la lettera uccide, ma lo Spirito vivifica”. – 2Cor 3:5,6.
Il fariseo Paolo, divenuto poi apostolo di Yeshùa, non si mise a predicare una dottrina concepita e voluta da lui, ma una rivelazione attinta da Yeshùa stesso sulla via per Damasco. Anche se noi, come discepoli di Yeshùa, ragioniamo oggi in modo ben diverso da quando non lo eravamo, ciò non proviene dal nostro semplice personale progresso del ragionamento umano, ma dal fatto che lo spirito di Dio ci ha illuminati con la sua parola ispirata contenuta nella Bibbia e ci ha convertiti. Dio ci ha offerto il dono munifico del suo spirito che giorno dopo giorno ci fa progredire spiritualmente e ci avvicina sempre di più al nostro Padre celeste. La lode non va quindi a noi stessi ma a Dio che ha operato potentemente nella nostra vita.
L’umiltà è alla base di ogni progresso duraturo. La superbia di Adamo condusse alla morte; l’ubbidienza umile di Yeshùa ci ha procurato la vita. Tocca a noi, illuminati e guidati dalla parola divina, accogliere Yeshùa invece di rivivere l’esperienza distruttrice del vecchio Adamo. Quando ci umiliamo, come il pubblicano , otteniamo il perdono; quando, al contrario, ci gloriamo del bene quasi fosse nostro, rimaniamo nella colpa. – Lc 18:10-14.
Ecco alcune regole pratiche per attuare una vita umile e farci progredire spiritualmente ogni giorno:
Umiltà nel parlare. Il credente maturo è umile nella parola. Vi sono invece persone che esaltano di continuo se stesse, ciò che fanno e i progetti che hanno. Per costoro tutti gli altri sono quasi dei buoni a nulla. Il ritornello che ricorre sulle loro labbra è: “Io … io … io …”. La lode è per loro, per gli altri solo biasimo. Anche se talvolta vedono del bene in qualcuno, che non possono negare, si affrettano a puntualizzare: “Sì, ma io …”.
Chi è spiritualmente maturo aborrisce questo modo di fare, segno indubbio di immaturità. Giacomo è chiaro al riguardo:
“Non sparlate gli uni degli altri, fratelli … E ora a voi che dite: «Oggi o domani andremo nella tale città, vi staremo un anno, trafficheremo e guadagneremo»; mentre non sapete quel che succederà domani! Che cos’è infatti la vostra vita? Siete un vapore che appare per un istante e poi svanisce. Dovreste dire invece: «Se Dio vuole, saremo in vita e faremo questo o quest’altro». Invece voi vi vantate con la vostra arroganza. Un tale vanto è cattivo. Chi dunque sa fare il bene e non lo fa, commette peccato”. – Gc 4:11,13-17.
Un indizio sicuro per vedere a che punto siamo nella nostra maturità spirituale, è esaminare il nostro modo di parlare.
Umiltà nell’agire. Il principio del credente maturo è quello di Paolo: “Non aspirate alle cose alte, ma lasciatevi attrarre dalle umili. Non vi stimate saggi da voi stessi” (Rm 12:16). Per dirla con il linguaggio bello e fresco di PdS: “Non inseguite desideri di grandezza, volgetevi piuttosto verso le cose umili. Non vi stimate sapienti da voi stessi!”.
Il credente maturo evita azioni che tornino esclusivamente a sua vanagloria. È quanto raccomanda Paolo: “Non fate nulla per spirito di parte o per vanagloria, ma ciascuno, con umiltà, stimi gli altri superiori a se stesso”. – Flp 2:3.
Yeshùa, per citare un solo esempio, non tollerò di essere proclamato re dalla folla entusiasta per la moltiplicazione dei pani, ma si ritirò in preghiera dopo aver allontanato in tutta fretta gli apostoli da qual luogo tanto pericoloso per la loro umiltà. – Gv 6:14-17.
Davanti alle contese dei corinti che si dividevano in partiti, Paolo pone loro domande concitate esprimendo il suo rammarico. – 1Cor 1:13;3:21-23.
Il credente maturo non aspira ai primi posti ma solo al modo di servire meglio di altri. Le persone amano essere onorate e stare al di sopra degli altri; sono sempre a caccia di primi posti, in mezzo a intrighi e rivalità. Ciò vale non solo per gli individui ma anche per le nazioni. Chi facesse così non sarebbe discepolo di Yeshùa ma schiavo del mondo.
“Se dunque io, che sono il Signore e il Maestro, vi ho lavato i piedi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Infatti vi ho dato un esempio, affinché anche voi facciate come vi ho fatto io”. – Gv 13:14,15.
Chi è maturo non si lamenta quando vede un altro in una posizione superiore alla sua e non ne se rammarica nemmeno nel suo intimo. Non pensa di essere trascurato. Tra credenti vi è casomai una gara per i posti più umili, lasciando che sia Dio a elevarci quando è il caso.
“Notando poi come gli invitati sceglievano i primi posti, disse loro questa parabola: «Quando sarai invitato a nozze da qualcuno, non ti mettere a tavola al primo posto, perché può darsi che sia stato invitato da lui qualcuno più importante di te, e chi ha invitato te e lui venga a dirti: ‘Cedi il posto a questo!’ e tu debba con tua vergogna andare allora a occupare l’ultimo posto. Ma quando sarai invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, affinché quando verrà colui che ti ha invitato, ti dica: ‘Amico, vieni più avanti’. Allora ne avrai onore davanti a tutti quelli che saranno a tavola con te. Poiché chiunque si innalza sarà abbassato e chi si abbassa sarà innalzato»”. – Lc 14:7.11.
Fa specie notare come vescovi e cardinali cattolici siano onorati e riveriti, distinguendosi con smaglianti vesti, sempre presenti ai primi posti, inquadrati in una gerarchia, partecipando come ospiti d’onore perfino ad eventi politici in cui dovrebbero sentirsi imbarazzati anziché godere del posto riservato loro.
Quando Paolo scrive a Timoteo: “Se uno aspira all’incarico di vescovo, desidera un’attività lodevole” (1Tm 3:1), ciò è in contrasto con l’umiltà? Per niente. Infatti, il vescovo di cui parla l’apostolo delle genti non è il vescovo delle attuali gerarchie ecclesiastiche cattoliche, ossequiato e riverito dalle autorità civili, che ottiene i primi posti nelle riunioni pubbliche. Non è il vescovo a cui si deve baciare l’anello, prostrandosi davanti a lui per riceverne la benedizione. Si tratta del vescovo sobrio, irreprensibile, non litigioso, non gonfio d’orgoglio, che in tutta umiltà cerca di precedere il gregge con il buon esempio e il servizio altruistico più basso. È il vescovo di cui parla Pietro:
“Pascete il gregge di Dio che è tra di voi, sorvegliandolo, non per obbligo, ma volenterosamente secondo Dio; non per vile guadagno, ma di buon animo; non come dominatori di quelli che vi sono affidati, ma come esempi del gregge”. – 1Pt 5:2,3.
L’aspirazione all’ufficio di vescovo non è la ricerca di un posto ben remunerato e vantaggioso, ma la brama di una maggiore consacrazione al servizio del prossimo. È la ricerca di un ministero staccato dal denaro e dedito alla temperanza, alla giustizia, alla santità, alla fedele pratica della parola di Dio. “Infatti bisogna che il vescovo sia irreprensibile, come amministratore di Dio; non arrogante, non iracondo, non dedito al vino, non violento, non avido di guadagno disonesto, ma ospitale, amante del bene, assennato, giusto, santo, temperante, attaccato alla parola sicura, così come è stata insegnata, per essere in grado di esortare secondo la sana dottrina e di convincere quelli che contraddicono”. – Tit 1:7-9.
Atteggiamento esteriore e interiore sono in relazione. Il credente umile, almeno in certe circostanze, non dovrebbe trascurare un atteggiamento esteriore di umiltà. L’atteggiamento esteriore condiziona anche quello interiore, e viceversa. Si chiama psicosomatica. Il proverbio “canta che ti passa” racchiude una profonda verità. Chi è triste e si sforza di cantare, alla fine finisce con il dominare la propria tristezza e ritrovarsi contento. Così, quando in certe circostanze abbiamo bisogno di uno specifico aiuto divino, possiamo – nel silenzio della nostra camera – assumere un atteggiamento modesto, magari inginocchiandoci, umilmente prostrati, abbattendo il nostro orgoglio. L’imbarazzo che potrebbe derivarne conferma solo quanto sia forte il nostro orgoglio e quanto ci sia ancora bisogno di lavorarci. Yeshùa, il nostro Maestro, non ebbe mai problemi a inginocchiarsi in preghiera, specialmente nei momenti in cui più aveva bisogno dell’aiuto di Dio. Se lo fece Yeshùa, perché mai non potremmo fare altrettanto? – Cfr. Mt 26:39.
Vigilanza per non cadere. Una volta guariti da certe malattie, se ne diventa immuni per sempre. Per la vita spirituale, invece, non vi è alcuna immunità. Il credente è uno che è stato purificato dal sangue di Yeshùa, ma che può sempre ricadere nel peccato da cui è stato guarito. La vita del credente si svolge in un paradosso continuo. Ha già in sé la vita eterna eppure deve morire: “Chi crede in me, anche se muore, vivrà” (Gv 11:25). Ha vinto il maligno eppure pecca ancora, anzi sarebbe un bugiardo se si proclamasse esente da colpa: “Noi siamo forse superiori? No affatto! Perché abbiamo già dimostrato che tutti, Giudei e Greci, sono sottoposti al peccato” (Rm 3:9; cfr. 3:23). È ravveduto ed è morto al peccato, seppellendo se stesso nelle acque battesimali, eppure deve continuamente far morire le sue membra al peccato: “Il suo morire fu un morire al peccato, una volta per sempre” (Rm 6:10), “Fate dunque morire ciò che in voi è terreno” (Col 3:5). È per questo che Paolo, sintetizzando tale paradosso, afferma: “Chi pensa di stare in piedi guardi di non cadere”. – 1Cor 10:12.
Praticamente, il credente deve comportarsi come un atleta che pur di raggiungere il premio si sottopone a disciplina e rinunce. È tutta qui l’essenza dell’ascetica biblica.
“Sapete che nelle gare allo stadio corrono in molti, ma uno solo ottiene il premio. Dunque, correte anche voi in modo da ottenerlo! Sapete pure che tutti gli atleti, durante i loro allenamenti, si sottopongono a una rigida disciplina. Essi l’accettano per avere in premio una corona che presto appassisce; noi invece lo facciamo per avere una corona che durerà sempre. Perciò io mi comporto come uno che corre per raggiungere il traguardo, e come un pugile che non tira colpi a vuoto. Mi sottopongo a dura disciplina e cerco di dominarmi per non essere squalificato proprio io che ho predicato agli altri”. – 1Cor 9:24-27, PdS.
Siamo come convalescenti che stanno attenti a non ricadere nella malattia appena superata, prestando attenzione alla dieta e alla propria attività.
Chi è maturo evita ogni compromesso con i metodi e gli usi mondani. Paolo confessava:
“Quanto a me, non sia mai che io mi vanti di altro che della croce del nostro Signore Gesù Cristo, mediante la quale il mondo, per me, è stato crocifisso e io sono stato crocifisso per il mondo”. – Gal 6:14.
“Non vi mettete con gli infedeli sotto un giogo che non è per voi; infatti che rapporto c’è tra la giustizia e l’iniquità? O quale comunione tra la luce e le tenebre? E quale accordo fra Cristo e Beliar? O quale relazione c’è tra il fedele e l’infedele? E che armonia c’è fra il tempio di Dio e gli idoli? Noi siamo infatti il tempio del Dio vivente, come disse Dio: «Abiterò e camminerò in mezzo a loro, sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. Perciò, uscite di mezzo a loro e separatevene, dice il Signore, e non toccate nulla d’impuro; e io vi accoglierò. E sarò per voi come un padre e voi sarete come figli e figlie», dice il Signore onnipotente”. – 2Cor 6:14.18.
Il digiuno non va disprezzato. Troppo spesso, nell’intento di combattere la pratica dei giorni di magro e dei digiuni imposti dal cattolicesimo, si è portati a disprezzare ogni specie di digiuno. Di certo dovremmo essere d’accordo con Paolo che sia il digiuno che la rinuncia temporanea ad alcuni cibi non hanno valore in sé e che spesso servono solo a soddisfare il proprio orgoglio e i propri sensi, nonostante la loro apparente severità (Col 2:20-23). Non è quindi con l’osservanza di precetti relativi al magro e al digiuno che si diviene spiritualmente saggi. Tuttavia, lo stesso Paolo in varie occasioni praticò il digiuno: “Dopo … aver pregato e digiunato” (At 14:23), “In ogni cosa raccomandiamo noi stessi come servitori di Dio, con grande costanza nelle afflizioni … nei digiuni” (2Cor 6:5,6), “Spesse volte nei digiuni” (2Cor 11:27). Lo stesso Yeshùa, prima di iniziare la sua attività pubblica, digiunò per quaranta giorni. – Mt 4:2.
Perché il credente non potrebbe talvolta e liberamente imitare il digiuno dei primi discepoli di Yeshùa? Migliorando perfino la propria salute, lo scopo del digiuno dovrebbe essere quello di imparare a controllare il proprio corpo e di suggellare la propria preghiera, come suggerisce lo stesso Yeshùa in Mt 17:21, versetto che manca in molti codici ma che pare genuino. – Cfr. Mr 9:29.
Ovviamente, il digiuno non deve essere ostentato: è solo Dio che, con la sua grazia, deve dare valore alle nostre azioni. Deve essere l’espressione sincera della nostra fiducia in Dio, che solo il Padre vede nel segreto: “Quando digiunate, non abbiate un aspetto malinconico come gli ipocriti; poiché essi si sfigurano la faccia per far vedere agli uomini che digiunano. Io vi dico in verità: questo è il premio che ne hanno. Ma tu, quando digiuni, ungiti il capo e lavati la faccia, affinché non appaia agli uomini che tu digiuni, ma al Padre tuo che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, te ne darà la ricompensa”. – Mt 6:16-18.
Una regola di vita spiritualmente efficace rimane quella che ci fa accettare con gioia la nostra situazione, accontentandoci di ciò che possediamo senza lamentarci e senza invidiare gli altri. Essere insomma contenti sia nell’abbondanza che nella scarsità.
“So vivere nella povertà e anche nell’abbondanza; in tutto e per tutto ho imparato a essere saziato e ad aver fame; a essere nell’abbondanza e nell’indigenza. Io posso ogni cosa in colui che mi fortifica”. – Flp 4:12,13.
“La pietà, con animo contento del proprio stato, è un grande guadagno. Infatti non abbiamo portato nulla nel mondo, e neppure possiamo portarne via nulla; ma avendo di che nutrirci e di che coprirci, saremo di questo contenti. Invece quelli che vogliono arricchire cadono vittime di tentazioni, di inganni e di molti desideri insensati e funesti, che affondano gli uomini nella rovina e nella perdizione. Infatti l’amore del denaro è radice di ogni specie di mali; e alcuni che vi si sono dati, si sono sviati dalla fede e si sono procurati molti dolori”. – 1Tm 6:6-10.
“Non è dall’abbondanza dei beni che uno possiede, che egli ha la sua vita” (Lc 12:15). Non si deve dimenticare che la vita può finire all’improvviso e che possiamo perdere tutto in un attimo: “Stolto, questa notte stessa l’anima tua ti sarà ridomandata; e quello che hai preparato, di chi sarà?”. – Lc 12:20.
Autocontrollo. Per proseguire verso la maturità occorre sapersi controllare ed esaminarsi ogni giorno. Solo così si possiamo stabilire dei piani concreti che ci condurranno a un continuo e progressivo miglioramento.
Chi vuole progredire deve saper controllare di continuo se stesso, i suoi sentimenti e le sue passioni. “L’uomo che non ha autocontrollo, è una città smantellata, priva di mura” (Pr 25:28). Anche se non possiamo raggiungere una vita perfetta, dobbiamo almeno essere immuni da ogni vizio che ci tenga schiavi, “perché uno è schiavo di ciò che lo ha vinto”. – 2Pt 2:19.
Esame di coscienza quotidiano. I credenti maturi esaminano ogni giorno la propria condotta e cercano di eliminare o almeno mitigare i propri difetti. Gli esami fanno parte della vita di tutti: esaminiamo la merce prima di acquistarla, ci sottoponiamo a esami medici, le aziende controllano i propri bilanci, a scuola si affrontano esami. Sarebbe quindi strano pensare di progredire nella maturità spirituale senza sottoporci regolarmente a un autoesame serio e sincero. La sincerità è necessaria, perché siano più propensi a vedere i difetti degli altri e a dimenticare i nostri. Con gli altri sappiamo essere duri, ma con noi stessi siamo pronti a fare esagerati compromessi. È come nel noto caso del foglio bianco con una sola piccola macchia nera: tutti notano la macchia nera e nessuno tutto il bianco candido attorno; così vediamo subito i difetti del prossimo non prestando attenzione a tutto ciò che di buono può esserci in loro. Tuttavia, guardando a noi stessi, il metro di misura cambia del tutto: tutti i lati buoni sono messi in risalto e quelli negativi sono scusati o non visti del tutto. È per questo che Yeshùa dice: “Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio di tuo fratello, mentre non scorgi la trave che è nell’occhio tuo? O, come potrai tu dire a tuo fratello: ‘Lascia che io ti tolga dall’occhio la pagliuzza’, mentre la trave è nell’occhio tuo? Ipocrita, togli prima dal tuo occhio la trave, e allora ci vedrai bene per trarre la pagliuzza dall’occhio di tuo fratello”. – Mt 7:3-5.
Paolo raccomanda espressamente quello che potremmo definire esame di coscienza: “Esaminatevi per vedere se siete nella fede; mettetevi alla prova”. – 2Cor 13:5.
“Esaminiamo la nostra condotta, valutiamola, e torniamo al Signore!”. – Lam 3:40.
Chi è maturo non lascia passare neppure un giorno senza esaminare la propria condotta e raffrontarla con la parola di Dio. Quanto più il credente progredisce nel suo spirito, tanto più gli si sveleranno mancanze e difetti cui prima non aveva badato. Prima di addormentarsi, chi è maturo rivede interiormente le sue azioni, i suoi pensieri e le sue parole della giornata, e se vi riconosce delle disarmonie tra la sua vita e la volontà di Dio si ripropone una vigilanza maggiore su particolari aspetti per il giorno successivo; chiede anche perdono a Dio, confidando nel sangue purificatore di Yeshùa. È solo così che può addormentarsi sereno. Man mano che progredisce farà sempre più esperienza di ciò che Paolo sperimentava: “Sono stato crocifisso con Cristo: non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me! La vita che vivo ora nella carne, la vivo nella fede nel Figlio di Dio il quale mi ha amato e ha dato se stesso per me”. – Gal 2:20.