Oggi, dopo il progresso morale insegnato e praticato da Yeshùa, è facile dare giudizi negativi su qualche parte delle Scritture Ebraiche. Si dimentica però che la morale biblica è un continuo progresso verso la morale insegnata da Yeshùa. Dio si adeguò alla capacità del grado culturale raggiunto dal popolo, per elevarlo gradatamente ad una morale superiore. Non si può accogliere l’idea di Marcione che condanna tutto il cosiddetto Antico Testamento quale frutto di un Dio malvagio per salvare poi solo le lettere paoline. Nella morale delle Scritture Ebraiche siamo nel campo del relativo. La rivelazione di Dio andò migliorando sempre più quell’antica concezione primitiva umana, cercando di regolamentare certi abusi provenienti dal mondo culturale assai basso del tempo. – Cfr. Tommaso, S. Th. 1-11, q. 107 a. 1,2.
Basti l’esempio della poligamia, che ci riesce assai sorprendente. L’unione con schiave, concubine e prigioniere di guerra era ritenuto permesso in epoca antica (Gn 4:19;16:3; Es 21:10; Dt 21:10-17; 1Sam 1:2; 2Sam 5:13). D’altra parte, se Dio avesse dovuto applicare la sua legge morale, avrebbe dovuto sterminare tutti. Però si cerca di salvaguardare la dignità della persona: “Se poi non ti piace più, la lascerai andare dove vorrà, ma non la potrai in alcun modo vendere per denaro né trattare da schiava, perché l’hai umiliata” (Dt 21:14). È ammesso il divorzio, ma se ne regola l’uso in modo da renderlo meno facile e in modo da salvaguardare la dignità della donna: “Quando un uomo sposa una donna che poi non vuole più, perché ha scoperto qualcosa di indecente a suo riguardo, le scriva un atto di ripudio, glielo metta in mano e la mandi via. Se lei, uscita dalla casa di quell’uomo, diviene moglie di un altro e se quest’altro marito la prende in odio, scrive per lei un atto di divorzio, glielo mette in mano e la manda via di casa sua, o se quest’altro marito, che l’aveva presa in moglie, muore, il primo marito, che l’aveva mandata via, non potrà riprenderla in moglie, dopo che lei è stata contaminata, poiché sarebbe cosa abominevole agli occhi del Signore. Tu non macchierai di peccato il paese che il Signore, il tuo Dio, ti dà come eredità” (Dt 24:1-4). Pur nella società maschilista dell’epoca, la donna non doveva essere trattata come merce.
Mentre dei re come Saul, Davide e Salomone avevano grandi harem, presso la gente semplice vigeva la monogamia, come appare nel caso di Uria (2Sam 12:1-4). In tal modo si elevò sempre più la dignità della donna: nella letteratura sapienziale l’uomo e la donna, padre e madre, appaiono uniti e in parità di rango. Il Cantico dei Cantici che esalta l’amore dello sposo verso la sposa e della sposa verso lo sposo, si presenta strettamente monogamico e preannuncia il messaggio di Yeshùa che, riferendosi a Gn 2, parla di due che formeranno un essere solo, per cui ciò che Dio ha congiunto l’uomo non lo doveva separare. – Mt 19:4.
Certe mancanze sono poi già rigidamente condannate dalle Scritture Ebraiche, come l’adulterio (su cui oggi molta gente ormai sorvola con tanta facilità). L’adulterio (che riguarda solo l’unione di un uomo con la moglie di un altro) era rigidamente proibito perché era violazione del diritto altrui, perché la donna sposata apparteneva già a un uomo (Es 20:14; Lv 20:10; Dt 5:21). Esso, secondo Giovanni (8:5; cfr. Ez 16:40), veniva punito con la morte per lapidazione. Erano pure proibiti in modo assai rigido l’incesto e le perversioni sessuali (Lv 18:6-30;20:10-21). La morale sessuale in Israele era indubbiamente superiore a quella dei cananei, i quali con la prostituzione sacra costituirono una perenne tentazione per gli israeliti. I culti della fertilità legittimavano presso i cananei le ierodule e gli ieroduli con i quali sia gli uomini sia le donne potevano unirsi sessualmente per onorare i loro dèi (Baal e Astarte) e così ottenere la pioggia benefica per i loro campi ed eliminare la sterilità dalla propria famiglia o dai propri animali. Contro tale perenne pericolo elevarono spesso la voce i profeti biblici.
Azioni disoneste. La Bibbia, secondo il metodo semitico, si esprime senza eufemismo; non ha il tabù del sesso come fu esasperato nel medioevo per influsso d’idee gnostiche ed ascetiche, fatte proprie, almeno parzialmente, dal cattolicesimo. Essa riferisce, senza alcuna reticenza, gli atti immorali dei suoi eroi (salvo che nel libro delle Cronache): si pensi all’adulterio di Davide con Batsheba (2Sam 11), all’incesto di Ammon con Tamar e conseguente fratricidio di Ammon per opera di Absalom (2Sam 12). Non tace la debolezza dei patriarchi, anzi tramite i loro difetti mostra come Dio si serva di uomini come noi, con tutte le nostre debolezze, per attuare i suoi piani di salvezza. Si ricordi la giusta osservazione di Agostino: Tali racconti sono “narrati ma non approvati”, oppure “sono riferiti per ammonimento nostro, non perché fossero imitati” (“Narrata non laudata . . . Cavenda admonnit, non imitanda proposuit”. – Agostino, Contra Faustum 22,45 per la poligamia di Lamec.
L’ispirazione biblica non ha nulla a che vedere con la condotta dei personaggi biblici, ma solo con il giudizio che si dà della loro condotta. Dio, infatti, non può approvare il male, né biasimare il bene: questo è quanto conta.
Talora le azioni malvagie sono espressamente biasimate: così l’atto sconveniente di Cam verso il padre Noè ubriaco (Gn 9:25,26); così l’adulterio di Davide (2Sam 12:7); così Caino che dice di ignorare dove sia Abele da lui ucciso (Gn 4:9); e casi simili.
Altre volte le azioni sono narrate senza alcun giudizio lasciandone la valutazione al lettore, secondo le norme morali espresse altrove nella Bibbia. Così la poligamia di Lamec (Gn 4:19); la bugia dei fratelli di Giuseppe i quali fanno capire al padre che il loro fratello (da essi venduto) era stato ucciso da una belva. – Gn 37:31-36.
La lode di una persona non implica l’approvazione di tutto quanto lei compie. Così l’elogio delle levatrici che salvano i maschi degli ebrei contro l’ordine di uccisione da parte del faraone, per sé non implica che se ne scusi la bugia (Es 1:15-21). Ad ogni modo, va ricordato che in quel tempo rozzo l’astuzia e la menzogna erano ritenute lecite, se attuate a fin di bene (Gdc 1:6;3:15 e sgg.;4:18 e sgg.; “machiavellismo”). I patriarchi sono elogiati, ma non se ne scusano le bugie, come quella con cui Isacco presenta sua moglie per sorella (Gn 26:7,9), e con la quale Giacobbe inganna Isacco. – Gn 27:11-29.
Talora non bisogna ritenere malvagio ciò che era conforme al diritto del tempo. Nel caso di Tamar che si unisce al suocero Giuda per avere un figlio, il patriarca afferma: “È più giusta di me” (Gn 38:26). Secondo la legge del tempo la vedova priva di figli poteva essere data dal suocero al fratello del morto per suscitare al defunto una posterità, oppure il suocero la poteva tenere per sé. Giacché Giuda mai si decideva ad attuare il suo obbligo, Tamar con uno stratagemma lo costringe a compiere il suo dovere.
Imprecazioni. Molti salmi sono propriamente imprecatori perché augurano il male ai loro nemici. Come possono tali brani essere ispirati e fare parte della Bibbia? Il Salmo 35, ad esempio, prega perché il male compiuto dai persecutori ricada su loro (v. 3 e sgg.). Lo stesso è ripetuto in Sl 79:6; Ger 11:20; Sl 59; Sl 94:1 e sgg.; Sl 140:9. Altri Salmi auspicano la morte ai nemici: così il Salmo 109:8 e sgg. (il v. 7 è rivolto al giudice perché lo condanni, e non a Dio). Qualcuno vorrebbe vedere in questi versetti la citazione di un’imprecazione detta dal nemico contro il salmista (v. 21), ma è poco probabile (cfr. v. 20).
Il Salmo 55:16 auspica una morte violenta degli avversari: “Li sorprenda la morte! Scendano vivi nel soggiorno dei morti!”. Si tratta di un’espressione tipica per indicare una morte violenta. – Cfr. Nm 16:33.
Il Salmo 69:23-29 (cfr. v. 28): “Siano cancellati dal libro della vita”, ossia muoiano repentinamente; qui non si tratta di vita eterna, un cielo dal quale devono essere espulsi, perché tale concetto di premio ultraterreno non era ancora sviluppato presso gli ebrei. Si tratta del libro che contiene la lista dei viventi sopra questa terra: “Non siano iscritti fra i giusti”. – V. 28.
Il Salmo 59:13: “Distruggili nel tuo furore “. Il Salmo 83:9,10: “Fa’ a loro come facesti a […] i quali furono distrutti a Endor, servirono da concime alla terra”. Il Salmo 137:8,9 riguarda l’uccisione di innocenti; parlando di Babilonia il salmista grida: “Beato chi ti darà la retribuzione del male che ci hai fatto! Beato chi afferrerà i tuoi bambini e li sbatterà contro la roccia!”
Come si possono conciliare queste espressioni con il senso del perdono? Come si possono, questi salmi, recitare tuttora come preghiera? Non è sufficiente spiegarli come “profezia” di quanto si sarebbe attuato, per esempio, nel caso del traditore Giuda, come fa Pietro applicando a lui un versetto del Salmo 109 (v. 8): “Prenda qualcun altro il suo incarico di sorveglianza” (At 1:20, TNM). Si può invece cercare di comprenderli mettendoli nell’ambiente in cui sorsero. Tali espressioni sono piuttosto una preghiera a Dio; il salmista anziché attuare personalmente la vendetta, la lascia a Dio. In mancanza di un vero tribunale giusto, dinanzi alla propria impotenza il salmista si rivolge a Dio. Mancando il concetto di una giustizia ultraterrena, la giustizia doveva attuarsi sulla terra, per cui l’orante chiede a Dio che qui si attui la giustizia da lui voluta e la realizzi mediante la legge del taglione: ciò che altri fecero ai devoti ricevano pure essi da Dio: dolori, sofferenze, morti, stragi che essi hanno inflitto a chi si affidava a Dio (cfr. Ap 13:10: “Se uno deve andare in prigionia, andrà in prigionia; se uno dev’essere ucciso con la spada, bisogna che sia ucciso con la spada. Qui sta la costanza e la fede dei santi”). In parte ciò si spiega con il fatto che la situazione inflitta ai giusti era un’offesa a Dio stesso e la “rivendicazione” dei diritti dell’oppresso era una rivendicazione dei diritti divini. In Salmo 83:9-18 il popolo di Israele si identifica con Dio; la sua vittoria sui nemici mostrerà la potenza divina:
“Fa’ a loro come facesti a Madian,
a Sisera, a Iabin presso il torrente di Chison,
i quali furono distrutti a Endor,
servirono da concime alla terra.
Rendi i loro capi come Oreb e Zeeb,
tutti i loro prìncipi come Zeba e Salmunna;
poiché hanno detto: «Impossessiamoci delle dimore di Dio!»
Dio mio, rendili simile al turbine,
a stoppia portata via dal vento.
Come il fuoco brucia la foresta
e come la fiamma incendia i monti,
così inseguili con la tua tempesta
e spaventali con il tuo uragano.
Copri la loro faccia di vergogna
perché cerchino il tuo nome, o Signore!
Siano delusi e confusi per sempre,
siano svergognati e periscano!
E conoscano che tu, il cui nome è il Signore,
tu solo sei l’Altissimo su tutta la terra”.
Il Salmo 137 non fa altro che descrivere la situazione barbara delle stragi che allora si compivano usualmente da parte dei vincitori contro i nemici vinti (ai bimbi si sfracellava il capo contro la roccia). Però, già gradatamente penetra il senso morale della benevolenza anche nelle Scritture Ebraiche (Lv 19:18 verso il prossimo), e anzi si raccomanda di ricondurre il bue smarrito persino al proprio nemico. – Es 23:4.
Naturalmente oggi non possiamo più ripetere (nemmeno in senso simbolico) espressioni imprecative di tal genere, perché siamo stati istruiti da Yeshùa a perdonare i nemici (Mt 5:43-48). I discepoli di Yeshùa non possono più maledire, ma devono vincere il male con il bene (1Pt 3:9; Rm 12:14; Lc 6:28). Dio, che si era adeguato alla mentalità del tempo, ha lavorato di continuo per purificarne ed elevarne la moralità sino al messaggio definitivo di Yeshùa vissuto nella pienezza dei tempi.
Una crudeltà di Davide? Stando al testo biblico di 2Sam 12:31b del manoscritto M (Testo Masoretico), Davide avrebbe fatto “passare” (ebraico heebìr) per le fornaci di mattoni, ossia avrebbe fatto bruciare gli ammoniti di Rabba, appena espugnata, e di altre città. Il passo parallelo di 1Cron ha “li segò” (ebraico vayyasàr). I LXX e la Vg (Volgata) danno al v. 31 di 2Sam 12 la seguente interpretazione: “Davide, vinti gli ammoniti, li avrebbe fatti segare, li avrebbe uccisi facendo passare sui loro corpi degli erpici armati di punte di ferro, li avrebbe tagliati a pezzi con scuri e gettati in fornaci di mattoni”. Il Mangenot, sotto la voce “David”, scrive: “Crudeltà di tal genere, che ci fanno orrore e non c’è bisogno di attenuare . . . si spiegano sufficientemente, senza poterle scusare, con i barbari costumi del tempo” (Dict. Bibl., Vol II, col. 1316). La nota in calce di TNM spiega: “’Servire’, con la correzione di una lettera; M, ‘passare [attraverso]’”, ovvero si ammette che per ottenere “servire” occorre modificare una lettera del testo ebraico che ha proprio “passare [attraverso]”. Nel passo parallelo di 1Cron 20:3 TNM traduce: “E fece uscire il popolo che era in essa, e lo tenne occupato a segar pietre e ad affilati strumenti di ferro e a scuri”, e nella relativa nota in calce spiega: “’A scuri’, con una lieve correzione per concordare con 2Sa 12:31; M, ‘a seghe di pietra’”, ammettendo ancora una correzione “per concordare con 2Sa 12:31” (Ibidem). Diodati, senza timore di riprodurre il testo originale del Masoretico, traduce: “Egli trasse parimente fuori il popolo ch’era in essa, e lo pose sotto delle seghe, e sotto delle trebbie di ferro, e sotto delle scuri di ferro, e lo fece passare per fornaci da mattoni”.
Ma è proprio vero che fu così? Il Condamin in un articolo apparso sulla Revue Biblique (1898 pagg. 253-258) si domandava nel titolo: “David cruel par la faute d’un copiste?” [“Davide crudele per l’errore di un copista?”]. Egli osservava che il verbo “far passare” (abàr) è molto simile per forma in ebraico a bd che significa “lavorare”. Nella forma hifìl (o causativa) qui usata ha il senso non di “far passare” (heebìr), ma di “usare/impiegare” (heebìd). In ebraico “r” e “d” sono assai simili:
ר ד d r
e anche in altri passi si confusero tra loro, specialmente nei nomi propri. In tal caso non vi sarebbe alcuna crudeltà in Davide, che avrebbe usato i popoli vinti per lavori gravosi: “Li fece lavorare con seghe di ferro e scuri di ferro” (31a); “e li mise a fabbricare mattoni” (31b). Il passo parallelo 1Cron 20:3 ha vayyasàr (“li segò”), che se ben si adatta alle seghe che seguono subito dopo, non si accorda con gli “erpici e le scuri” che vengono dopo (non si parla di fornaci per mattoni). Anche qui vi deve essere un errore di copista, e occorre modificare il “li segò” (vayyasàr) in vayyasèm (“li impiegò”) ovvero li applicò alle seghe, agli erpici ferrati e alle scuri. Tale, infatti, è il verbo che si usa nel passo parallelo di 2Sam 12:31a (vayyasèm) che serve a correggere il verbo in Cronache. La crudeltà davidica è dunque un puro errore di copista. Così molti critici odierni. – A. Fernandez, Verbum Domini 3,1923, pag. 226; K. Budde, Die Bücher Samuel, Leipzig, 1920, pag. 259; H. Smith (Driver), The Books of Samuel, Edimburgh, 1904, pag. 327.