Un gioco di parole su un nome proprio di persona lo troviamo in Gn 17:19: “Sara, tua moglie, ti partorirà un figlio e tu gli metterai il nome di Isacco [יִצְחָק (Yitzkhàq), “risata”]”. Dio aveva detto di Sara a suo marito Abraamo: “Io la benedirò e da lei ti darò anche un figlio; la benedirò e diventerà nazioni; re di popoli usciranno da lei” (Gn 17:16). Al che, Abraamo “rise, e disse in cuor suo: «Nascerà un figlio a un uomo di cent’anni? E Sara partorirà ora che ha novant’anni?»” (Gn 17:17). Dio gli aveva solo detto che avrebbe avuto un figlio, ma dopo la malcelata e irriverente sfiducia di Abraamo, Dio gli impone anche il nome: “Risata”. Ciò ci dice qualcosa del carattere di Dio e ci rammenta Gal 6:7: “Non fatevi illusioni: con Dio non si scherza! Ognuno di noi raccoglie quel che ha seminato” (TILC). Senza scomporsi, Dio – detto, fatto – dà una lezione ad Abraamo. Per noi, Isacco è solo un nome. Per Abraamo, ogni volta che chiamava il figlio col suo nome (Risata) era l’evocazione e il ricordo del proprio irrispettoso scetticismo.
Giacobbe, benedicendo suo figlio Giuda, dice: “Giuda, te loderanno i tuoi fratelli” (Gn 49:8). Anche qui il gioco di parole si perde nelle traduzioni. L’ebraico ha: יְהוּדָה אַתָּה יֹודוּךָ (Yehùdah attàh yoduchà), con un gioco di assonanze.
Stessa cosa quando Giacobbe benedice il figlio Dan: “Dan giudicherà il suo popolo” (Gn 49:16). In ebraico: דָּן יָדִין עַמֹּו (Dan yadìn àmu).
Idem per la benedizione al figlio Gad: “Gad sarà assalito da bande armate, ma egli, a sua volta, le assalirà e le inseguirà” (Gn 49:19). Ebraico: גָּד גְּדוּד יְגוּדֶנּוּ (Gad ghedùd yegudènu), “Gad, una banda su di lui”.
A volte, il gioco di parole sui nomi personali si fa grottesco. L’intelligente e assennata Abigail così dice a Davide circa il marito: “Ti prego, mio signore, non far caso di quell’uomo da nulla che è Nabal [נָבָל (Navàl)]” (1Sam 25:25). Il nome נָבָל (Navàl) significa “vile”, “meschino”, “scellerato”, “stupido”. Gli uomini, in genere, sono meno intelligenti delle donne; molti sono proprio tontoloni; ma questo esagerava.
Il passo di Is 7:6 pone un problema agli esegeti: “Saliamo contro Giuda, terrorizziamolo, apriamo una breccia e proclamiamo re in mezzo a esso il figlio di Tabbeel”. Siamo al tempo di Acaz re di Giuda; il Regno di Israele, alleato con la Siria, sta per attaccare Gerusalemme. Dio fa avvisare, tramite il profeta Isaia, il re Acaz. Nei progetti degli israeliti c’è anche di insediare un nuovo re. Il passo isaiano dice, infatti, ciò che loro stanno architettando: “Proclamiamo re in mezzo a esso [= il Regno di Giuda] il figlio di Tabbeel”. Ora, ciò che qui è tradotto “figlio di Tabbeel” è nel testo biblico בֶּנ־טָבְאַל (ben-tavàl). Molti traduttori prendono questo טָבְאַל (tavàl) come nome proprio di persona. Una pubblicazione religiosa gli dedica perfino una piccola biografia: “Padre di un uomo che i re di Israele e di Siria intendevano mettere sul trono di Gerusalemme, capitale di Giuda, se l’avessero conquistata” (Perspicacia nello studio delle Scritture Vol. 2, pag. 1066). Diversi studiosi, però, fanno notare che טָבְאַל (tavàl) è una combinazione di due nomi: טב (tov), “buono”, e אל (al), “verso”. Il che significherebbe “buono per”, intendendo che volevano incoronare un re fantoccio buono per loro. D’altra parte, la parolina אל (al) significa anche “nulla”, per cui טָבְאַל (tavàl) verrebbe a significare “buono a nulla”. Il vocabolo בן (ben) non significa solo “figlio” ma anche “giovane”. Così l’espressione בֶּנ־טָבְאַל (ben-tavàl) avrebbe il senso di “un giovane buono a nulla”, indicando proprio un re di facciata. Così interpreta anche Rabbi Avraham ben Meir ibn Ezra, l’illustre esegeta medievale. Ciò appare anche evidente dal testo biblico che non fa il nome di questa persona: infatti, anche volendo assumere “figlio di Tabeel”, come fa TNM, il suo nome non è detto. Anzi, sarebbe davvero strano che un futuro re non venisse nominato per nome ma solo col generico appellativo di “figlio di”, tra l’altro figlio di un presunto “Tabeel” del tutto sconosciuto. Non dimentichiamo che la pronuncia tovàl invece di tavàl è possibilissima perché il testo ebraico originale non ha vocali. Come spiegare allora il Testo Masoretico che ha tavàl (טָבְאַל)? È molto probabile e verosimile che i masoreti, tutti giudei ed esperti conoscitori del testo biblico e dei suoi giochi di parole, abbiano voluto ridicolizzare questo re fantoccio che era nei piani dei nemici israeliti.
“Pascur liberò Geremia dai ceppi. Geremia gli disse: «Il Signore non ti chiama più Pascur [פַשְׁחוּר (Pashkhùr)], ma Magor-Missabib [מָגֹור מִסָּבִיב (Magòr Misavìv)]»” (Ger 20:3). Il nome פַשְׁחוּר (Pashkhùr) è formato da פַּשׁ (pash), parola caduta in disuso che troviamo solo in Gb 35:15 e che si riallaccia a פֶשַׂע (pèsha) che indica la lunghezza di un passo (cfr. 1Sam 20:3); in Gb potrebbe indicare il passo ampio (בַּפַּשׁ מְאֹד, pash meòd) tipico dello sbruffone, superbo ma stupido, che TNM traduce con “estrema avventatezza”. La seconda parte del nome פַשְׁחוּר (Pashkhùr) è חוּר (khur), radice verbale che significa “impallidire” (cfr. Is 29:22). Il nome indicherebbe dunque una persona altera che incute timore. Il nuovo nome, מָגֹור מִסָּבִיב (Magòr Misavìv), è formato da מָגֹור (magòr), “terrore”, e da מִסָּבִיב (misavìv), “tutt’intorno”. La spiegazione del mutamento di nome è data da Dio stesso: “Poiché così parla il Signore: «Io ti renderò un oggetto di terrore a te stesso e a tutti i tuoi amici»”. – Ger 20:4.
Questi giochi di parole con i nomi propri delle persone contengono spesso degli aspetti umoristici che hanno lo scopo di mettere il ridicolo le persone che la Bibbia disapprova, distorcendo i loro nomi. C’è però ben di più e quest’ultimo aspetto è poco compreso dal lettore occidentale della Bibbia. Nel linguaggio semitico (che è quello biblico) il nome indica la realtà della persona, l’essere costitutivo, la sua essenza: “Come è il suo nome, così è lui” (1Sam 25:25). Questo pensiero tipicamente ebraico è presente in tutta la Scrittura. Noi (concetto occidentale) diciamo che una persona ha un nome; l’ebreo (concetto mediorientale e biblico) dice che la persona è il suo nome. Nella Scrittura il nome indica la natura stessa della persona.
Per la nostra mentalità occidentale è indifferente come una persona si chiami: ha il nome che ha e ciò basta. Per la mentalità biblica, è diverso: nel nome c’è il destino della persona. Ora la domanda è: come potrebbero i genitori sapere già questo destino quando impongono il nome ai loro figli neonati? Non potrebbero, ovviamente. Ciò spiega perché alcuni nomi nella Bibbia non sono veri nomi. Già il Talmùd spiegava, ad esempio, che i nomi delle spie inviate a esplorare la Terra Promessa non erano i loro veri nomi, ma furono dati nella Bibbia dopo i loro cattivi comportamenti (cfr. Talmud babilonese, Sotah 34 bis). Solo i sempliciotti si sorprendono che molti altri nomi nella Bibbia non siano reali, ma descrivano gli attributi del singolo.
Per capire quest’aspetto possiamo richiamare un uso che vigeva nei paesi e nei quartieri italiani nelle generazioni passate. Nei paesi era normale individuare qualcuno con un soprannome. Così, se in un paese un contadino era particolarmente furbo, magari veniva soprannominato “volpe”; tale era il suo nome per tutti; anche la famiglia e i discendenti assumevano poi tale epiteto.
Così, nella Bibbia, leggiamo: “Mossero guerra a Bera re di Sodoma, a Birsa re di Gomorra, a Sineab re di Adma (Gn 14:2). Bera = ben ra, “figlio di cattiveria”; Birsa = ben rashah, “figlio di malvagità”; Sineab = soneh ab, “odia anche il padre”. Certo è anche possibile che questi nomi fossero reali, ma non dovremmo sorprenderci se i loro nomi fossero stati distorti per screditare quei re, re del male che governavano regni malvagi.
In Gn 31:42 Giacobbe chiama Dio “il Terrore [פַחַד (pakhàd)] d’Isacco” e più avanti, in 31:53, è detto che “Giacobbe giurò per il Terrore [פַחַד (pakhàd)] d’Isacco”. È davvero insolito chiamare Dio così. Va però ricordato che Isacco fu legato dal padre sopra un cumulo di legna per essere sgozzato e offerto in sacrificio. Possiamo immaginare il suo sgomento che divenne rapidamente panico? “Mentre camminavano insieme l’uno accanto all’altro Isacco disse: «Padre!». «Sì, figlio mio», – gli rispose Abramo. E Isacco: «Abbiamo il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per il sacrificio?». Abramo rispose: «Ci penserà Dio stesso, figlio mio!». E i due proseguirono insieme il loro cammino. Quando giunsero al luogo che Dio aveva indicato, Abramo costruì un altare e preparò la legna, poi legò Isacco e lo pose sull’altare sopra la legna. Quindi allungò la mano e afferrò il coltello per sgozzare suo figlio” (Gn 22:6-10. TILC). È psicologicamente spiegabile che da allora Isacco rimanesse sottoposto a Dio avvertendolo come terrificante.
Il principe “Sichem, figlio di Camor”, vide la disinvolta Dina, figlia di Giacobbe, e “la rapì e si unì a lei violentandola” (Gn 34:2). Il nome Camor è nel testo ebraico חֲמֹור (khamòr), parola che significa “asino”. La Bibbia marchia così Sichem, definendolo figlio di un asino.
Orpa, una delle due nuore di Noemi, lasciò la suocera dopo che tutt’e tre le donne erano rimaste vedove. L’altra nuora, Rut, però rimase con Noemi. Ora, il nome Orpa è in ebraico עָרְפָּה (Orpàh), derivato da ערף (òref) che significa “nuca”. Orpa girò la testa, voltò le spalle a Noemi, abbandonandola. D’altra parte, il nome רוּת (Rut) significa “amicizia”.
In Mr 5:9 Yeshùa domanda ad un uomo posseduto da demòni: “Qual è il tuo nome?”. Lui risponde: “Il mio nome è Legione perché siamo molti”. C’è qui uno spassosissimo gioco di parole e tutta la scena è volta al sarcasmo per ridicolizzare alla fine i nemici di Israele. “Legione” richiama immediatamente un’unità militare romana. Yeshùa espelle i demòni dal poveretto e li manda in un branco di porci che poi si gettano in mare (vv. 11,12). Come è noto, in Israele la carne di maiale non poteva essere consumata (Dt 14:8; Lv 11:7) e l’allevamento di maiali era severamente vietato in tutta Israele (BQ 7,7). “Maledetto l’uomo che alleva maiali!” recitano M 64b e Sotah 49b. Questo era un principio basilare assolutamente incontestabile. Non solo. Il maiale era anche simbolo dei nemici di Israele: “Un cinghiale dai boschi continua a mangiarla [la vigna del Signore, Israele]” (Sl 80:13, TNM). Gli ebrei contemporanei di Yeshùa usavano il richiamo al porco per riferirsi all’odiato impero romano. Al tempo di Yeshùa era la X Legione Fretense che assicurala la pax romana ricorrendo brutalmente alla spada. Sarà anche buffo, ma tale legione romana aveva come mascotte proprio un cinghiale. E non basta. I soldati romani spesso integravano il loro misero rancio militare con carne di maiale rastrellata nei villaggi greci della Decapoli. Questo spiega anche come potessero esserci dei maiali nella zona di Gerasa (proprio nella Decapoli), abitata da pagani, e come potessero esserci “quelli che li custodivano” (v. 14). Possiamo immaginare allora l’effetto che doveva fare ad un ebreo sentire le parole “porci” e “legione”, specialmente a quei giudei che aspettavano ansiosamente “uno che ci salverà dai nostri nemici e dalle mani di tutti quelli che ci odiano” (Lc 1:71). Quando quindi Yeshùa ammoniva: “Non gettate le vostre perle davanti ai porci” (Mt 7:6), gli ebrei capivano benissimo che la sapienza della Toràh non doveva essere sprecata per i pagani e soprattutto per i romani. La Bibbia diceva anche che “una donna bella, ma senza giudizio, è un anello d’oro nel grifo di un porco” (Pr 11:22). Il maiale era proprio quanto di più spregevole si potesse usare per indicare il disprezzo. Ora qui, nel racconto dell’indemoniato, appare la forza del male che si chiama proprio “legione” e queste forze sataniche vanno a finire nei porci che poi si suicidano nel mare. Se si aggiunge che i romani erano giunti in Israele proprio dal mare … beh, il quadro è completo.
“Dalila” (דְּלִילָה, Dalylàh) è il nome dato alla donna che Sansone amò (Gdc 16:4). Fomentata dai filistei, lei riuscì a carpire, con un ricatto fatto di moine tutte femminili, il segreto della forza eccezionale di Sansone: tagliandogli i capelli diventava debole (Gdc 16:15-17). “Se mi tagliassero i capelli, la mia forza se ne andrebbe, diventerei debole [חָלִיתִי (khalìyty)] e sarei come un uomo qualsiasi” (v. 17). Ora, il verbo ebraico דלל (dalàl) significa “indebolire”; l’assonanza con Dalylàh è evidente.
“Filtrate il moscerino e inghiottite il cammello” (Mt 23:24). In questa frase di Yeshùa non solo è presente un’iperbole (un’esagerazione) che rende comica l’immagine, ridicolizzando scribi e farisei, ma è presente un gioco di parole che nessuna traduzione può evidenziare. In aramaico, la lingua usata al tempo di Yeshùa, le parole “moscerino” e “cammello” sono foneticamente simili: moscerino = galma, cammello = gama. Come dire: “Filtrate un galma e inghiottite un gama”. Il gioco di parole, oltre ad essere divertente, colpisce la mente e imprime di più il concetto nella memoria.
A Mosè che, per la sua posizione privilegiata dovuta al favore divino, vuole conoscere il suo nome, Dio risponde con fine ironia e, rimettendolo in riga, usa un gioco di parole: “Sarò chi sarò” (Es 3:14). Il gioco di parole, molto musicale, suona: אֶהְיֶה אֲשֶׁר אֶהְיֶה (ehyèh ashèr ehyèh). Detto chiaramente: Sono chi mi pare.