Dopo aver negato di essere venuto per abolire la Legge di Dio, Yeshùa garantisce: “In verità [ἀμὴν (amèn), “così sia”] vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, neppure un iota o un apice della legge passerà”. – Mt 5:18.
Qui Yeshùa usa un’iperbole che mostra proprio quanto era forte per lui l’importanza della Toràh. Neppure “una minima lettera o una particella di lettera” (TNM) passerà. Yeshùa parla di uno iota (ἰῶτα, iòta) e di un apice (κερέα, kerèa).
- Iota. Lo ἰῶτα (iòta) è la più piccola lettera dell’alfabeto greco: corrisponde e assomiglia alla nostra “i”, ma senza neppure il puntino:
ι
- Apice. In greco è κερέα (kerèa), che significa “corno”. In ebraico si chiama קוץ (qotz), che significa “spina”. Qui indica le piccole sbavature (a forma di minuscoli corni o piccole spine) presenti in alcune lettere dell’alfabeto ebraico. Diamo degli esempi:
La prima lettera nella riga superiore (י) è uno yòd, corrispondente alla nostra “y”. Un yòd senza apice, usato anche nella scrittura corsiva o manuale nell’ebraico moderno, sarebbe scritto così: ׳. Il primo (י) è lo yòd classico dei caratteri stampati; qui si nota la differenza con quello senza apice: è infatti presente un κερέα (kerèa) o qotz (קוץ) o apice: è il piccolo trattino decorativo in cima alla lettera, sporgente verso sinistra. Nella riga inferiore abbiamo la lettera làmed (ל), corrispondente alla nostra “elle” (l); anche qui è visibile il κερέα (kerèa) o apice: è il piccolissimo trattino in cima alla lettera, sporgente verso sinistra. Si noti che per renderlo più visibile abbiamo dovuto ingrandirlo.
L’espressione אחד קוץ או אחת יוד לא (lo yòd akhàt o qotz ekhàd), “neppure uno yòd o una spina”, usata in Mt 5:18 dalla Bibbia Ebraica (The British and Foreign Bible Society, Israel Agency, Israel, 1962), è un tipico modo di dire ebraico. Anche in italiano usiamo un’espressione simile, dicendo – ad esempio – che non intendiamo “cambiare una virgola” riguardo a qualcosa. L’espressione si riferisce a qualcosa di secondario e insignificante, indicando l’intenzione e la convinzione certa di non voler mutare assolutamente alcunché, neppure una piccola cosa.
Quando Yeshùa dichiarò che sarebbero passati cielo e terra prima che passasse una singola piccola lettera dell’alfabeto ebraico o perfino un suo piccolo elemento decorativo, stava dicendo in un modo molto suggestivo che la Toràh data da Dio non avrebbe mai cessato di esistere. Molti detti rabbinici sono simili a quello usato da Yeshùa ed esprimono la stessa idea. Eccone alcuni: “Tutto ha una fine – cielo e terra hanno una fine –, solo una cosa non ha fine. Cos’è? La Toràh” (Genesi Rabàh 10:1); “Nessuna lettera sarà mai abolita dalla Torah” (Esodo Rabàh 6:1); “Se tutte le nazioni del mondo si radunassero per eliminare una parola della Toràh, esse non sarebbero in grado di farlo”. – Levitico Rabàh 19:2.
Yeshùa, continuando la sua argomentazione sulla Legge, dice in Mt 5:19 che non bisogna trascurare neppure uno dei “minimi comandamenti”. Valendo ciò per i comandamenti considerati più piccoli, si comprende tutta la considerazione che Yeshùa aveva per l’intera Legge.
Yeshùa smentisce che il suo metodo d’interpretare le Scritture annulli o indebolisca la Legge. Al contrario, Yeshùa sostiene con convinzione di essere più ortodosso degli ortodossi: “Se la vostra giustizia non supera quella degli scribi e dei farisei, non entrerete affatto nel regno dei cieli”. – Mt 5:20.