Gli ebrei attribuivano enorme valore alla Bibbia, specialmente al Pentateuco che fu accolto quale parola di Dio da tutte le correnti ebraiche (farisei, rabbini, sadducei) e anche dai samaritani eretici. I farisei guidati dai rabbini accolsero come ispirati anche tutti gli altri scritti che ora formano le Scritture Ebraiche. Ecco i loro pensieri a riguardo:
I libri della Sacra Scrittura sono sacri
- La fede dei rabbini nell’ispirazione biblica è dimostrata dal modo con cui citano la Bibbia quale parola di Dio dicendo: “Sta scritto”, “Dio dice” ed espressioni simili. Spesso le discussioni tra i rabbini consistevano nell’addurre passi biblici a prova della propria idea, talvolta in modo assai strano e fuori contesto (per le citazioni cfr. Strack-Billebeck, Kommentar zum Neuen Testament IV, München, 1928, pagg. 443-446). Essi leggevano la Scrittura e la commentavano nelle loro sinagoghe (Lc 4:16,17); anzi per renderla più comprensibile prepararono dei targùm(ìm) (o traduzioni) in aramaico, lingua che si impose all’ebraico dopo l’esilio (ad esempio quello di Onkelos per il Pentateuco, il Targùm palestinese Neofiti I, di recente rinvenuto e pubblicato a Madrid).
- Un altro elemento per documentare la santità divina della Scrittura sta nel fatto che dopo avere toccato il rotolo biblico, i rabbini si lavavano (e si lavano tuttora) le mani, da esso “contagiate” in quanto lo scritto ispirato conferiva loro una sacralità che si poteva togliere solo con l’uso dell’acqua corrente (si confronti l’uso dei sacerdoti cattolici di lavarsi le dita dopo aver toccato l’ostia consacrata).
- Un terzo elemento per comprendere la loro fiducia nella Bibbia sta nel fatto che i rabbini ritenevano che l’Insegnamento (la cosiddetta Legge) – e più tardi anche tutte le Scritture Ebraiche – preesistesse tale e quale in cielo anche prima di essere comunicato agli uomini tramite dettatura. La toràh – per loro – era in cielo come una creatura prediletta da Dio, scolpita su tavolette prima della stessa creazione del mondo; e fu dettata parola per parola a Mosè, ad eccezione, forse, degli ultimi otto versetti (morte di Mosè). Secondo il libro II dei Giubilei, sulle tavolette celesti stavano scritte non solo la “Legge”, ma anche tutti i libri storici (cfr. per la Legge 2Giub 4:5,32; per i libri storici 23:32;31:32;32:28). Tale concetto passò agli arabi che l’applicarono al Corano, ritenuto da loro una copia del libro preesistente in cielo (J.B. Frey, La Révélation d’après les concertions juives; J. Bonsirven, Le judaisme palestinien, I, pagg. 213,250). Un concetto simile esiste ora presso i mormoni per il Libro di Mormon rinvenuto – secondo loro – da J. Smith e tratto da tavolette celesti.
- Dalla persuasione che la Bibbia fosse stata dettata da Dio derivò la meticolosità con cui se ne conservò il testo anche nei casi di errata trasmissione (se ne lasciò l’originale errato o si pose in alto più in piccolo l’eventuale correzione).
- Da questo profondo amore per la Scrittura derivò pure l’esegesi dei qabalisti che davano valore e significato profondo ad ogni minima lettera del testo sacro, mediante procedimenti per noi strani. Essi vi trovavano occultati dei valori simbolici nei numeri. Si tratta della gematria o ghematria o ghematriàh: lo studio numerologico delle parole scritte in ebraico, che è uno dei metodi di analisi utilizzati dalla Qabalàh. La parola “gematria” deriva dell’ebraico גימטריה (ghymatriyàh) che a sua volta deriva dal greco γεωμετρία (gheometría) cioè “geometria”. Con lo stesso nome è a volte indicato lo studio numerologico delle parole in lingua greca contenute nelle Scritture Greche, anche se tale studio andrebbe definito più correttamente isopsefia. Questo procedimento è attuato anche da coloro che vedono nel numero 666 dell’Apocalisse il simbolo della Chiesa Cattolica: “Qui sta la sapienza: Chi ha intelligenza calcoli il numero della bestia selvaggia, poiché è un numero d’uomo; e il suo numero è seicentosessantasei [אA; P47 e manoscritto onciale 046; χξς´ (ch-cs-s) sono le lettere greche che rappresentano il numero 666]” (Ap 13:18, TNM). Il procedimento di decrittazione è questo (anche con altra decifrazione si ottiene lo stesso significato):
Questi qabalisti decifravano le parole anche come se le loro singole lettere fossero le iniziali di altrettanti vocaboli, traendone in tal modo delle dottrine occulte; oppure vi sostituivano altre lettere facendone corrispondere l’ultima lettera dell’alfabeto alla prima, la penultima alla seconda e così via di seguito. Tale metodo è detto Atbàsh (prima lettera = ultima lettera; b = sh). Talora si ripartiva l’alfabeto in due sezioni (2 x 11 lettere) facendo corrispondere la 1a alla 12a, la 2a alla 13a (albàm) e così via. – Cfr. J. Abelson, Il misticismo ebraico – la Kabbala, Torino; G.S. Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, Milano.
Un simile procedimento fu adottato anche da Geremia quando occultò la parola Babèl nel vocabolo Sheshàkh: “Il re di Sesac [“Sesac”, MVg; T, “Babele”]” (Ger 25:26, TNM); nel caso di “Babele” ciascuna bet (b), diventa shin (sh), làmedh (l) diventa kaf (k), e il nome diventa Sheshàkh (Sesac). Il procedimento è lo stesso in Ger 51:41: “Oh come è stata catturata Sesac [“Babele”, T]” (TNM). Si tratta di un nome simbolico per Babilonia. Un’ipotesi è che “Sesac” significhi “con porte di rame”, nome che si addiceva alla città di Babilonia. Un’altra, che “Sesac” stesse per il SiskuKI di un antico registro reale babilonese. Sisku o Siska poteva essere un distretto dell’antica Babilonia. Comunque, secondo la tradizione ebraica, Sesac è un nome in codice per Babele (Babilonia), secondo l’artificio detto atbàsh. – Cfr. nota a Ger 25:26 nella Soncino Books of the Bible, a cura di A. Cohen, London, 1949.
Lo stesso sistema di nome criptato, Geremia lo usa per i caldei (kasdìm) nel termine leb-qamay: “Contro gli abitanti di Leb-Camai [T, “il paese dei caldei”; LXX, “i caldei”]” (Ger 51:1, TNM). “Leb-Camai” è in ebraico Lev qamài, che significa “il cuore di quelli che si levano contro di me”. Si tratta di un nome crittografico per Caldea (Kasdìm), secondo il sistema crittografico atbàsh.
- Dato che le Scritture Ebraiche sono composte nella quasi totalità in lingua ebraica, ne viene che questa lingua ha per gli ebrei un valore sacro per cui è stata fatta rivivere ancora oggi in Palestina. In questo modo gli ebrei si confermano il popolo sacro di Dio, la nazione eletta. Il ripristino dell’ebraico dopo circa duemila anni d’inattività è davvero un miracolo. Nessuna lingua morta al mondo è rinata. La lingua della Scrittura sì.
Tentativi esplicativi filosofici
Gli ebrei che cercarono di chiarire meglio il modo con cui l’ispirazione divina si svolse furono, in Palestina, Giuseppe Flavio e il 4° Esdra; in Egitto, il filosofo Filone.
- Giuseppe Flavio più che determinare il modo dell’ispirazione si accontentò di dire che gli scrittori “furono organi” di Dio quando vennero ispirati ed i loro scritti sono quindi del tutto armonici. “Il diritto di scrivere presso noi era riservato ai profeti, che conoscevano per ispirazione di Dio [katà tin epìgnoîan tèn apò theoû] le cose antiche e occulte. Non possediamo migliaia di libri che si contraddicono l’un l’altro, ma soltanto ventidue che contengono il ricordo del passato, ai quali noi giustamente prestiamo fede [dikàios pepisteuména; a cui, falsamente, Eusebio H. E. III, 10 vi aggiunge thêia: dikàios thêia pepisteuména (“che giustamente riteniamo divini”]” (Giuseppe Flavio, Contro Apione 1:7,8). “Non esiste divergenza nei nostri scritti, perché solo i profeti hanno chiaramente raccolto i fatti lontani e antichi avendoli appresi per ispirazione divina […]. I fatti dimostrano di qual rispetto noi circondiamo i nostri libri […]. In tanti secoli nessuno si è permesso un’aggiunta, un taglio o un cambiamento. È logico per tutti gli ebrei pensare che vi si trovino i voleri divini e perciò li rispettano e, all’occasione, sono pronti a morire per essi con gioia” (Giuseppe Flavio, Contro Apione, 1:8). Per Giuseppe Flavio tali libri sono “dogmi divini, scritti da coloro di cui Dio si è servito come di organi per manifestare ciò che volle” (Ibidem); e l’azione divina ha sospeso l’attività personale del profeta, poiché “nulla di proprio rimane, quando vi entra la divinità”. – Giuseppe Flavio, Antichità Giudaiche IV, 5; anno 93 E. V..
- Per il IV Esdra, apocrifo palestinese scritto verso il 90-95 E. V., l’ispirazione divina è presentata come una possessione divina che fa “germogliare” all’esterno la sapienza. “Questa traboccò irresistibilmente per 40 giorni e 40 notti dalla bocca di Esdra, il quale dettò a cinque segretari novantaquattro libri sacri” (4° Esdra 14:37-48; erroneamente la Clementina ha 204 libri). Di questi, ventiquattro sono di dominio pubblico e costituiscono il canone sacro, come venne fissato definitivamente a Jamnia circa nel 100 E. V., mentre gli altri “sono occulti” e corrispondono agli apocrifi delle Scritture Ebraiche.
- Questo filosofo giudeo parlò assai diffusamente dell’ispirazione nelle sue opere e la ridusse a fenomeni di possessione simile alle estasi degli indovini pagani (cfr. Platone, Fedra 22; Cicerone, De divinatione 1,31; Luciano, Farsalia 5,166; Virgilio, Eneide 6,45 e sgg.). Filone stesso – come narra lui stesso – ne fece l’esperienza, quando, preso da un “entusiasmo”, analogo a quello provato dai “coricanti”, si metteva a scrivere a sua insaputa delle lunghe pagine (De migratione Abraham 7). L’ispirazione è quindi per Filone “un’irresistibile pazzia divina, che afferra i profeti” (quis rerum divinarum haeres, n. 51). “I profeti sono gli interpreti di Dio che si serve dei loro organi per manifestare ciò che vuole”; il profeta, “assentandosi da sé”, entra in una forma estatica quando parla di Dio; “Il profeta ispirato da Dio emette oracoli e profezie, senza dire nulla di proprio; né mentre è rapito e ispirato può intendere ciò che gli viene presentato sotto dettatura da un suggeritore” (De Monarchia, n. 9). Durante l’ispirazione il profeta – per Filone – dimentica ogni cosa: “La mente ispirata da Dio dimentica tutto il resto, scorda anche se stessa, rammenta uno solo [vale a dire Dio]; quando poi è cessato l’entusiasmo ed è sbollito il violento impeto, ritornando dalle dimore divine, egli ridiviene uomo e riprende possesso delle nozioni umane”. – De Somniis 2,34.
Tutte queste concezioni, frutto di riflessione umana e ben lontane dalla sobrietà biblica, hanno il difetto di esagerare l’azione divina e di ridurre eccessivamente l’attività personale dell’agiografo (lo scrittore sacro), ridotto ad un essere incosciente.
L’analisi del testo biblico ci rivela al contrario le abilità personali dello scrittore che vengono utilizzate da Dio, anziché essere annientate. Si osservi poi che nelle Scritture Ebraiche, ad eccezione di scarsi brani scritti per comando di Dio, l’ispirazione riguarda piuttosto il profeta anziché direttamente il testo.
Il testo biblico è sacro solo perché raccoglie le profezie ispirate prima oralmente e poi trascritte. In questo senso è “parola di Dio”.