L’uomo sotto l’ispirazione divina è attivo. L’uomo ispirato non è trasformato in una specie di robot, ma agisce secondo la propria mentalità, capacità e possibilità espressive. Ecco alcune conseguenze evidenti a chiunque voglia riflettere.
La verità divina è sempre infinitamente superiore alle possibilità espressive umane. Il profeta cercherà di esprimersi come può, di moltiplicare le sue immagini, i suoi paragoni, ma dovrà constatare di essere inferiore alla realtà che desidera presentare. Paolo lo dice chiaramente quando, ricordando la propria esperienza, vale a dire la rivelazione ricevuta, scrive:
“Quell’uomo [Paolo stesso] fu portato sino al paradiso [ovvero al 3° cielo]. (Se lo fu fisicamente o solamente in spirito – lo ripeto – io non lo so: Dio solo lo sa).
Lassù udì parole sublimi che per un uomo è impossibile* ripetere”. – 2Cor 12:3,4, TILC.
* “Impossibile” ovvero non nelle proprie capacità. Il “non è lecito” di TNM è fuori contesto. Se Paolo avesse ricevuto l’ordine di non rivelare le parole udite, non avrebbe neppure parlato della sua esperienza. Invece la racconta e dice che non riesce a ripetere le parole udite: un uomo non ci riesce, è fuori dalle sue capacità. Il testo greco ha:
ῥήματα ἃ οὐκ ἐξὸν ἀνθρώπῳ λαλῆσαι
rèmata à uk ecsòn anthròpo lalèsai
parole che non possibile a un uomo dire
Anche se il prologo del quarto Vangelo è sublime, “Giovanni non vi espresse la realtà così com’è”, – scrive Agostino – “ma solo come poté lui stesso, in quanto fu un uomo che parlò di Dio. Anche se ispirato, rimase pur sempre un uomo. In quanto ispirato disse qualcosa, se non fosse stato ispirato non avrebbe detto nulla del tutto” (Agostino, In Joan. Tract. 1, 1 PL 35, 1379 e sgg.). Proprio perché ha utilizzato un uomo, che si sarebbe espresso in modo umano, Dio ha potuto “parlare mediante un uomo alla maniera di uomini”. – Agostino, De civitate Dei 17, 6 2 PL 41, 537.
Avendo una capacità espressiva inadeguata, lo scrittore sacro presenterà la realtà in modo parziale e limitato, rivestendola, come disse Bonaventura, di “pannolini” umani: “Come Cristo fu avvolto di pannolini, così la sapienza di Dio fu avvolta nella Scrittura in certe umili figure” (Bonaventura, Breviloquium prof. par. 4; Quaracchi 1891 vol. V pag. 204). Il paragone calza. Paolo usò un paragone simile:
“Noi conosciamo in parte, e in parte profetizziamo; ma quando la perfezione sarà venuta, quello che è solo in parte, sarà abolito. Quando ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino; ma quando sono diventato uomo, ho smesso le cose da bambino. Poiché ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora vedremo faccia a faccia; ora conosco in parte; ma allora conoscerò pienamente”. – 1Cor 13:9-12.
“Esplorando la Scrittura tu troverai” – scriveva Lutero – “quella divina sapienza che Dio pone qui semplicemente e umilmente dinanzi ai nostri occhi, per calmare ogni orgoglio. Tu vedrai le fasce e la mangiatoia dove Cristo riposa, e di cui gli angeli e i pastori ti indicano il cammino. Semplici e povere fasce, ma prezioso è il tesoro, Cristo, che ivi riposa”. – Lutero, Vorrede zum Alten Testament vol IV, pag. 3, Calwer Verlag.
Ecco le limitazioni nelle quali dovette essere imbrigliata l’esperienza divina goduta dal profeta e la susseguente parola di Dio.
Stile personale. Lo stile è l’uomo; non può essere cambiato, per cui ciascun uomo si esprime in modo ben differente da un altro. È attraverso l’analisi dello stile che si può difendere o combattere l’autenticità di un brano letterario tramandatoci dal passato. Per esprimere un medesimo concetto sono ben diverse le parole usate da un filosofo, da un commerciante o da un contadino. Tramite la Genesi, scritta da un teologo e non da uno scienziato, Dio non ci poteva presentare un racconto scientifico circa l’origine del mondo. Mediante l’autore delle Cronache, uno scrittore mediocre privo d’immaginazione e di stile, ma profondamente credente, Dio non ci può presentare una narrazione affascinante. Per fare questo avrebbe dovuto ispirare un letterato, quale fu, ad esempio, Isaia.
Girolamo che ben conosceva gli scrittori sacri per la lunga familiarità avuta con essi, ben sapeva che ogni autore si esprime in modo personale: “Isaia ha un linguaggio privo di espressioni rustiche, in quanto era cittadino nobile. Geremia a motivo del suo luogo di nascita, fu un uomo rozzo; veniva infatti da Anatot, un povero villaggio a tre miglia da Gerusalemme. Lo stesso dicasi di Amos che, essendo un bovaro vissuto in un luogo culturalmente limitato e nel vasto deserto dove ruggisce il leone, usa espressioni [tratte] dal suo lavoro e presenta la terribile voce del Signore come il ruggito e il fremito del leone”. – Girolamo, in Is. praef. PL 28, 771; Jer. Prol. PL 28, 847; in Amos praef. PL 25,990.993; Praef. in duodaim prophetas PL 28, 1015.
Nella Bibbia, perciò, accanto alla voce letterata dell’aristocratico Isaia, cittadino di Gerusalemme, si ode il linguaggio popolare del mandriano Amos, coltivatore di sicomori; il lamento del borghese Geremia; l’occhio riflessivo dello speculatore Matteo e l’afflato artistico del medico Luca. Quest’ultimo parla di “grande febbre” secondo la classificazione delle febbri data da Galeno, anziché di semplice “febbre” come gli altri sinottici (Lc 4:38); di “lago” (λίμνην, lìmnen) anziché di “mare” per il lago di Galilea (Lc 5:1); di “lettiga” (κλινίδιον, klinìdion) anziché usare i nomi più impropri usati dagli altri evangelisti (Lc 5:24): “letto” (κλίνην, klìnen) di Mt 9:6, “branda” (κράβαττον, kràbatton) di Mr 2:11. Luca chiama Yeshùa “maestro” (ἐπιστάτης, epistàtes) al posto dell’aramaico originale (rabbi). – Lc 5:5;8:24,45;9:33,49;17:13.
Troviamo così un greco discreto nel vangelo di Giovanni, buono nel medico Luca, pessimo nell’Apocalisse giovannea, che è un’aperta sfida alla grammatica e alla sintassi greca. – Cfr. Lancellotti, Sintassi ebraica nel greco dell’Apocalisse I. Uso delle forme verbali, Assisi, 1964.
La Lettera agli ebrei, al contrario, è scritta “dal migliore stilista tra gli scritti del Nuovo Testamento” (E. Norden, Agnostos Theòs, Berlin, 1929, pag. 386), scritta forse dal letterato Apollo (“Un ebreo di nome Apollo, oriundo di Alessandria, uomo eloquente e versato nelle Scritture”, At 18:24). La Lettera agli ebrei è comunemente stata attribuita all’apostolo Paolo. Di essa però è stato giustamente detto che: 1. Non è una lettera, 2. Non è indirizzata agli ebrei, 3. Non è di Paolo. Lo stile è, infatti, molto diverso da quello delle lettere paoline (il greco di Eb è molto elegante). L’errore probabilmente sta nel fatto che essa era stata accettata come epistola di Paolo da alcuni dei primi scrittori ecclesiastici: il papiro Chester Beatty II (P46), del 200 circa E. V., la incluse fra nove lettere paoline, ed Eb fu elencata fra le “quattordici lettere di Paolo l’apostolo” nel “canone di Atanasio”, del 4° secolo E. V.. Lo scrittore di Eb non si identifica, però, per nome. Cosa già di per sé sospetta, perché in tutte le sue lettere Paolo appone il proprio nome. L’assenza del nome dello scrittore, più che non escludere a priori che sia stato Paolo a scriverla, indica che non ne fu lui l’autore. L’evidenza intrinseca della lettera non indica necessariamente Paolo come scrittore: Eb 13:24, nella chiusa dello scritto, non è una prova che la lettera (ammesso che lo sia) fu scritta dall’Italia, infatti il testo ha οἱ ἀπὸ τῆς Ἰταλίας (òi apò tes Italìas), “quelli dall’Italia” (e non “quelli che sono in Italia”, TNM). Da notare poi Eb 13:23: “Notate che il nostro fratello Timoteo è stato liberato, col quale, se viene abbastanza presto [“più resto”, prima del previsto, nel testo greco], vi vedrò” (TNM). Lo scrittore di Eb menziona la liberazione di Timoteo e si augura che questi vada da lui prima del previsto. Se si trattasse di Paolo, questo non avrebbe senso, dato che Timoteo era a Roma con Paolo (è menzionato da Paolo nelle sue lettere scritte da Roma durante la sua detenzione lì: Flp 1:1;2:19; Col 1:1,2; Flm 1). Se era stato liberato dopo essere stato in prigione con Paolo, che senso avrebbe augurarsi che Timoteo andasse da lui “più presto” del previsto? E che senso avrebbe progettare di vedere i destinatari di Eb con Timoteo se Paolo era sempre in prigione? Inoltre, Paolo aveva in programma (se l’appello a Cesare fosse andato a buon fine) di recarsi in Spagna. Lo scrittore di Eb appare invece un uomo libero con i suoi programmi: se Timoteo andrà da lui prima di quanto previsto, insieme vedranno i destinatari di Eb, altrimenti li vedrà da solo.
In passato, alcuni (specialmente i protestanti, desiderosi di esaltare la Sola Scriptura) dicevano che Dio stesso, accondiscendendo alla diversa mentalità del profeta, aveva dettato lo scritto adattandosi alle capacità dei singoli scrittori umani. Secondo alcuni luterani del 17° secolo, Dio avrebbe rivelato in visione il libro sacro agli apostoli ispirati che si accontentarono di copiarlo: esso sarebbe quindi ispirato nelle idee, nelle singole parole e perfino nelle sue stesse vocali (A. Tostat, in Matth Praef. 9, 5; Estius, in II Tim 3, 16; C.R. Billuard, De reg. fidei, d. 1 q. 2; fu l’opinione di luterani ortodossi e calvinisti: J.A. Quensstedt, Theol. didactico-polemica a. 1 c. 4 Th. 3; B. Turretin, Défense de la fidelité des traduct. de la S.B. faites à Genève). Abbandonata alla fine del 18° secolo, questa teoria riacquistò favore nel 19° secolo con un risveglio effimero dovuto agli sforzi di L. Gaussen (Théopneustiè ou inspiration pléndère des Ecritures, pag. 1849). Anche il cattolico Bañez pensava che Dio avesse dettato le parole della Bibbia per evitare che le idee fossero deturpate.
La professione di fede della Convenzione Elvetica (anno 1675) minacciava multe, carcere ed esilio a chiunque non ammettesse l’ispirazione delle vocali del testo ebraico: essi non sapevano che le vocali erano state aggiunte dai masoreti, seguendo la tradizione orale dei rabbini, molti secoli dopo la morte di Yeshùa (6° o 7° secolo)! Questa formula fu abolita solo nel 1725. Tuttavia, tale concezione esaltava indebitamente l’attività divina riducendo l’uomo a un puro ripetitore meccanico in modo da non potersi più considerare autore del libro. È al contrario più logico attribuire le variazioni stilistiche all’uomo anziché a Dio, così come la scrittura più o meno grossa è attribuita alla punta più o meno sottile del pennino o della biro, anziché allo scrivano. Del resto, la Scrittura stessa parla dell’autore umano (ispirato, ovviamente) di qualche libro sacro: così essa attribuisce alcuni Salmi a Davide, alcuni Proverbi a Salomone, alcune lettere a Paolo (1Pt 3:5). L’ispirato Luca ricorda a Teofilo la propria ricerca personale presso i vari testimoni, onde poter scrivere un racconto attendibile a sostegno della fede (Lc 1:1-4). Siamo ben lungi da un’ispirazione meccanica, da una semplice dettatura. È molto più logico pensare che, donando l’ispirazione (o rivelazione, secondo i casi) ai singoli profeti, Dio li lasciò parlare (e scrivere) secondo il loro proprio modo personale. Come noi possiamo pregare Dio anche con espressioni sgrammaticate, così Dio ci può parlare anche tramite errori grammaticali e sintattici dovuti allo scrittore umano da lui scelto. Quello che conta è l’insegnamento, non la forma letteraria. Dio è anzi solito usare ciò che sembra stolto per umiliare i dotti:
“Fratelli, guardate la vostra vocazione; non ci sono tra di voi molti sapienti secondo la carne, né molti potenti, né molti nobili; ma Dio ha scelto le cose pazze del mondo per svergognare i sapienti; Dio ha scelto le cose deboli del mondo per svergognare le forti; Dio ha scelto le cose ignobili del mondo e le cose disprezzate, anzi le cose che non sono, per ridurre al niente le cose che sono, perché nessuno si vanti di fronte a Dio”. – 1Cor 1:26-29.
Quindi, le espressioni e le parole vengono direttamente dall’uomo, ma anche da Dio, per il semplice fatto che l’uomo agisce sotto l’ispirazione divina.
Intuizione di Plutarco. Possiamo applicare alla Scrittura ciò che a suo tempo scriveva Plutarco a proposito della Pizia di Delfo (Plutarco, nato a Cheronea nella Beozia nel 50 E. V. circa, vi morì nel 120 circa; scrisse sugli oracoli della Pizia; cfr. Frangipane, Alcuni problemi di ispirazione biblica, in Riv. Bibl. 7, 1959, pagg. 17-24). Alcuni obiettavano che la Pizia, presentando gli oracoli di Apollo (il dio della musica, dell’arte e della letteratura), avrebbe dovuto esprimersi in modo superiore a quello dei poeti, mentre al contrario gli oracoli di Delfo valevano ben poco sotto l’aspetto letterario. Al che egli risponde: “Anche se i versi della Pizia non fossero meno belli di quelli omerici, non crediamo affatto che sia stato dio a comporli, ma che egli ha dato l’impulso del movimento, che ciascuna delle profetesse ha ricevuto secondo la sua natura. Infatti, se fosse stato necessario scrivere gli oracoli, invece di pronunciarli a viva voce, non crederemmo che le lettere stesse [tà gràmmata, ossia i caratteri] siano opera del dio, né gli rimprovererebbero di averli scritti meno bene degli editti regali. Non sono, infatti, del dio la voce, il suono, il metro, ma delle donne. Il dio provoca solo le immagini e fa luce nell’animo circa le cose future: questo significa, infatti, l’entusiasmo che non è affatto un racchiudere dio in un corpo mortale. Come il corpo dispone di numerosi strumenti [orgànois, le membra] e l’anima a sua volta dispone del corpo e delle parti di esso, così l’anima diviene strumento [òrganon] del dio. Ora, benché il pregio di uno strumento stia nel conformarsi il più possibile all’agente che se ne serve secondo le sue naturali qualità, così da realizzare l’opera dell’intelligenza che per esso si manifesta, avverrà tuttavia che quest’opera non si mostrerà mai tale e quale è nell’artefice: pura, integra e irreprensibile; bensì mescolata a molto di suo. Infatti, il pensiero ignoto a noi in se stesso è inaccessibile, manifestandosi per mezzo di un altro essere; si contamina della natura di lui”.
Come la luce solare riflessa dalla luna arriva a noi con raggi offuscati e attenuati che si possono guardare, così Apollo “deve servirsi della Pizia per far pervenire il suo pensiero ai nostri orecchi allo stesso modo che la luce del sole deve riflettersi sulla luna per raggiungere i nostri occhi. Quindi ciò che egli mostra e manifesta sono i suoi pensieri, ma contaminati attraverso un corpo mortale e un’anima umana. Questa poi, incapace di restare passiva e di offrirsi immobile e tranquilla a colui che la muove, è scossa dai movimenti e dalle passioni che si agitano nel suo fondo, sicché il cosiddetto entusiasmo sembra essere la mescolanza di due movimenti: quello subìto dall’anima e quello del suo naturale”. Non si può muovere un cilindro come una sfera, o un cono come un cubo. “Siccome si tratta di un essere animato, dotato di mobilità, di attività e di ragione propria, si potrebbe forse utilizzarlo altrimenti che seguendo le disposizioni e le facoltà preesistenti della sua natura?”.
“Ora, in quale condizione si trova la Pizia che svolge ai nostri giorni il suo ufficio presso dio? Ella nasce sì da una delle famiglie più oneste e rispettabili del posto ed è sempre stata di una condotta irreprensibile; ma, allevata in casa di poveri contadini, non porta con sé, entrando nel recinto profetico, alcun elemento artistico, o altre conoscenze e talenti. L’inesperienza e l’ignoranza di lei sono quasi totali, sicché s’accosta al dio con anima veramente vergine. E ciò nonostante noi pretendiamo che la sua voce e le sue parole si presentino come le esclamazioni che si odono in teatro . . . che non siano sgradevoli, né meschine, ma ritmicamente cadenzate, ariose, ornate d’artefici di stile e accompagnamento di flauto!”. – Ibidem.
Vero è che qui si descrive un’attività pagana, ma quanto illustrato ci aiuta a capire cosa avvenga nella vera ispirazione, quella biblica.